Nei momenti felici di una grande nazione, la gioventù prende gli esempi; nei momenti difficili, li da.

lunedì 28 febbraio 2011

Un altro lutto italiano in afghanistan. Onore a Massimo Ranzani.



La lista dei nostri caduti in afghanistan si allunga. Stamattina, un ordigno rudimentale è esploso danneggiando un nostro mezzo "lince" e uccidendo il Tenente Massimo Ranzani, 37 anni, di Ferrara, e ferendo altri 4 soldati italiani a bordo del mezzo.
Possiamo ragionare sulle modalità della nostra missione, possiamo discutere sulla validità della missione stessa, possiamo parlare di concetti di Libertà, Democrazia, Pace e Guerra. Ma al di là di tutto, deve far riflettere un dato.
Il convoglio di cui faceva parte il veicolo Lince colpito oggi era un convoglio di assistenza alla popolazione. Il Tenente Ranzani tornava da un villaggio nella provincia di Shindad, dove i nostri soldati erano stati per portare assistenza sanitaria e medica alla gente del posto.
L'esercito italiano sa benissimo che la prima cosa da fare quando si va in territori difficili è aiutare la gente, per impedire che gli insorti possano trovare terreno fertile per la loro propaganda, e per dare una speranza a uomini donne e bambini che, altrimenti, non vedrebbero medici per mesi, se non per anni.
A turno i nostri soldati girano i villaggi e piantano una tenda ospedale dove poter curare i bambini, somministrare medicine e effettuare visite mediche.

Il Tenete Ranzani stava tornando da una di queste missioni, e qualche terrorista vigliacco ha fatto esplodere un ordigno uccidendo il nostro connazionale.

Ci uniamo al cordoglio della famiglia Ranzani, e ricorderemo il nostro soldato, morto per portare un po' di serenità in quei luoghi martoriati, come un uomo che è morto per alti ideali e con grande spirito di sacrificio.

sabato 26 febbraio 2011

GIOVANNI BLINI, LA COMUNITA' GIOVANILE LO RICORDA.

"Ho deciso di fare qualcosa e di tentare nel mio piccolo di oppormi al modello di vita dominante...volevo creare un centro giovanile dove si provasse davvero a vivere i veri valori, una specie di isola alternativa al modello di vita dominante..."

Sono le parole di Giovanni Blini riportate sul volantino distribuito all'interno del convegno a lui dedicato dai ragazzi di Comunità Giovanile, il luogo che da oltre 20 anni accoglie la realtà giovanile bustocca nato per rispondere ad un certo senso di smarrimento di una generazione invisibile, quella di allora, seguita da altre due che ne proseguono il tracciato. Sul palco del foyer del Museo del Tessile si sono alternati sette relatori, sette amici, sette punti di vista diversi tra loro che hanno raccontato Blini raccontandosi.

Giovanni Blini, lonatese, morì a soli 24 anni il 1° ottobre 1990 di ritorno da un viaggio nel sud-Italia con due amici dei quali solo uno si salvò. Il centro giovanile, inizialmente ospitato in una casa di corte del centro cittadino (e attualmente in vicolo Carpi), era nato poco meno di un anno prima e in quel viaggio era andato a raccontare l'esperienza dei ragazzi di Busto ai pari età siciliani.

Ad aprire il convegno, intitolato "Giovanni Blini: una vita, una storia, un bene comune", è stata Serena Maggioni, giovane presidentessa di Comunità Giovanile, insieme a Stefano Gussoni suo predecessore. Tante le immagini vivide descritte dai relatori provenienti da esperienze di vita diverse e comuni. Luca Pesenti, docente di sociologia alla Cattolica, ne ha esaltato il coraggio pragmatico e anticipatore dei tempi sottolineando come Giovanni fosse stato «tra i primi a capire che bisognava ragionare in modo diverso rispetto ai fondatori della destra italiana post-fascista spesso solo a parole, ma andavano fatti alcunei passaggi culturali che nessuno aveva il coraggio di iniziare: l'anti-imperialismo, l'ecologismo, l'antirazzismo».

«Giovanni Blini sapeva saltare gli steccati delle ideologie, questa cosa mi stupì perchè non era una visione diffusa nella destra dell'epoca» - ha invece rimarcato il responsabile della redazione bustocca della Prealpina, Silvestro Pascarella. Giovanni aveva creato un gruppo di persone che avevano il coraggio di osare a non ragionare più in termini di comunismo e fascismo. Checco Lattuada, attuale consigliere comunale del Pdl, ha condivisio con lui l'esperienza di guidare Comunità Giovanile per alcuni anni e ha fatto parte del Fronte della Gioventù e di Fare Fronte, negli anni del liceo: «E' stato lui ad anticipare la svolta della destra italiana e non Gianfranco Fini - ha voluto sottolineare Lattuada- è grazie a gente come lui, Alemanno, Rampelli». Più legato alla sua religiosità l'intervento di Massimo Crespi, tra i fondatori di Comunità Giovanile e amico intimo di Giovanni: «A sedici anni mi scrisse in una lettera in cui mi incoraggiava a cercare Dio in un momento di difficoltà familiari - ricorda l'amico leggendone il contenuto - ricordo che rimasi stupito dall'uso accurato delle parole. Non era la lettera di un ragazzo di sedici anni, era qualcosa di più». Fabrizio Crivellari, allora militante romano del Fronte della Gioventù, ha voluto sottolineare anche il grande studio che ha caratterizzato gli anni '90 con la destra di Alain De Benoist.

Lele Magni, che si è avvicinato a Blini e alla sua visione del mondo da quello degli ultras della Pro Patria, ha raccontato una serie di aneddoti di vita vera, reale a stretto contatto con il suo agire quotidiano: «Gli proposi di esporre un'immagine di che Guevara per sottolineare la posizione anti-imperialista di Comunità Giovanile e lui, dopo una lunga discussione, accondiscese. Qualche giorno dopo entrò una signora che veniva dalla vicina sezione dell'Msi, mi ricordo che quasi svenne a vedere l'icona del Che nella sede di Comunità Giovanile tra le risate generali». Enrico Salomi, infine, ha ribadito la grande esuberanza innovativa che aveva attraversato, allora, il gruppo intorno a Giovanni Blini ma ha anche sottolineato che, come in ogni evento che cambia la vita, «serve un fondatore e in quegli anni fu Giovanni Blini». A conclusione del pomeriggio e degli interventi, Stefano Gussoni, come un po' tutti i relatori, ha sottolineato quanto sia importante ancor di più oggi «partire subito con la Fondazione Blini che ha a disposizione un capitale economico che può essere investito in capitale umano - ha detto in chiusura Gussoni - non lamentiamoci poi del fatto che non ci sono soldi per i giovani».


Da Varese news, 27-02-2011

PROTESTA CONTRO LA MANCATA INTITOLAZIONE DI UNA VIA AD ALMIRANTE A MARNATE!

La Giovane Italia, movimento giovanile del Popolo della Libertà, venerdì sera è andata in sala consiliare a Marnate "per fare un piccolo gesto simbolico contro l'arroganza delle associazioni e partiti che si opponevano a via Giorgio Almirante, ovviamente ci è stato negato dalle forze dell'ordine sollecitati da alcuni consiglieri comunali".

"Quella sera" si legge nella nota inviata ai quotidiani locali "c'era la riunione della GIOVANE ITALIA VALLE OLONA, c'erano 25 ragazzi che si sentivano insultati e stupiti per la pioggia di insulti che era piovuta addosso al compianto capo della destra italiana e quindi a tutti quelli che ne facevano parte. Sapevamo del consiglio che ci sarebbe stato quella sera e decidemmo di fare qualcosa, un piccolo gesto per mostrare che c'è chi è stufo del clima d'odio costruito ad arte in Italia. Costruito da chi ha un assoluto bisogno di avere dei 'mostri' da combattere per dimostrare l'importanza della sua esistenza".

Giovane Italia ha così preparato un volantino con scritte poche parole: "Giorgio Almirante: un italiano esemplare" con a fianco un tricolore che sventola, "e abbiamo deciso di mandare al consiglio comunale solo 3 ragazzi, per evitare che qualche campione di democrazia si sentisse minacciato da una presenza numericamente molto superiore a quelli che da giorni si starnazzano sui giornali il loro sprezzo per il segretario storico del MSI".

"Appena entrati in aula consiliare (un aula consiliare che, tolti assessori, consiglieri, giornalisti e forze dell'ordine contava come annunciato tutte le persone che si stanno ribellando alla decisione di Via Almirante, cioè ad esser magnanimi si contavano sulle dita delle mani) qualche solerte consigliere si è preoccupato di ciò che stava avvenendo (cioè niente) e si è affrettato ad attivare le forze dell'ordine, che ci hanno chiamato fuori dall'aula. Tra scuse ridicole da parte dei vigili e consigli 'paterni' accompagnati da frasi come '...se no ci costringete ad indentificarvi e ad intervenire...' delle forze dell'ordine, ci è venuto un po' da ridere e un po' di rabbia: da ridere per la questione in essere, l'opposizione che non ha altri argomenti per dare addosso ad un sindaco se non quello della toponomastica; la rabbia invece pensando che siamo nel 2011 e che la tensione che questi signori di sinistra ci vogliono far vivere è veramente brutta e ci ributta indietro negli anni dell'odio senza motivi seri e ideali, ma solo per la fame di potere che loro hanno.
Nei nostri territori la storia e i cittadini hanno di fatto estromesso loro dai posti amministrativi dando una valutazione concreta della loro azione politica e loro continuando con la solfa preistorica della caccia al fascista (che oggi non esiste) non fanno altro che confermare questa valutazione!"

"Questi signori - dice un dirigente provinciale della Giovane Italia - sono arroganti e cinici, ieri hanno strumentalizzato un importante simbolo religioso per portare avanti una battaglia che di valor politico ne ha veramente poco. Io, Sabba, conosco bene l'importanza per il popolo ebraico dei loro simboli, proprio per questo mi ha fatto specie questa strumentalizzazione."

Il Blitz di Giovane Italia si chiude con l'invito al Sindaco Celestino Cerana e tutta la Giunta a "valutare bene il valore DEMOCRATICO delle critiche, perchè le voci che si sono alzate sono quelle di persone che si 'ammantano di democrazia e cianciano di libertà' solo in un senso". Inoltre vuole fare i complimenti alla Giunta marnatese e al PDL "per aver governato benissimo un paese che l'unica polemica di rilievo che solleva è il nome di una via..."

venerdì 25 febbraio 2011

E Adesso la LIBIA. A CHI CONVIENE?

Per capire che cosa sta accadendo a Tripoli bisogna considerare innanzitutto il quadro strategico. Non siamo di fronte a rivolte spontanee, ma indotte che mirano a replicare nel nord Africa quanto avvenuto alla fine degli anni Ottanta nell’ex Unione Sovietica. Anche allora la rivolta partì da un piccolo Paese, la Lituania, e all’inizio nessuno immaginava che l’incendio potesse propagarsi ai Paesi vicini e non era nemmeno ipotizzabile che l’Urss potesse implodere. Il Maghreb non è l’Unione sovietica e non esistono sovrastrutture da far saltare, ma per il resto le analogie sono evidenti. La Tunisia è il più piccolo dei Paesi della regione ed è servito da detonatore per la altre volte. A ruota è caduto il regime di Mubarak, la Libia è in subbuglio, domani forse Teheran e, magari sull’onda, Algeria, Marocco, Siria. Che cos’avevano in comune i regimi tunisini, egiziano e libico? Il fatto di essere retti da leader autoritari, ormai vecchi, screditati, che pensavano di passare il potere a figli o fedelissimi inetti.

Non è un mistero: le rivolte sono state ampiamente incoraggiate – e per molti versi preparate – dal governo americano. Da qualche tempo Washington riteneva inevitabile l’esplosione del malcontento popolare e temendo che a guidare la rivolta potessero essere estremisti islamici o gruppi oltranzisti, ha proceduto a quella che appare come un’esplosione controllata, perlomeno in Egitto e in Tunisia. Perché controllata? Perché prima di mettere in difficoltà Ben Ali e Mubarak, l’Amministrazione Obama ha cementato il già solidissimo rapporto con gli eserciti, i quali infatti non hanno mai perso il controllo della situazione e sono stati gli artefici della rivoluzione. Non scordiamocelo: oggi al Cairo e a Tunisi comandano i generali, che anche in futuro eserciteranno un’influenza decisiva. Washington ha vinto due volte: si è assicurata per molti anni a venire la fedeltà di questi due Paesi e ha messo a segno una straordinaria operazione di immagine, dimostrando al mondo intero che l’America è dalla parte del popolo e della democrazia anche in regimi fino a ieri amici.

Le dinamiche libiche sono diverse perché Gheddafi non era un alleato degli Stati Uniti e perché le Ong legate al governo americano non hanno potuto stabilire contatti e legami con la società civile libica; insomma, non hanno potuto fertilizzare il terreno sul quale far germogliare la rivolta. Che però è esplosa lo stesso. Per contagio e alimentando non la fedeltà dell’esercito, ma il suo malcontento. Come in tutte le rivoluzioni sono le forze armate a determinare l’esito delle rivolte popolari. Gheddafi in queste ore paga gli errori commessi in passato. Come ha rilevato Domenico Quirico sulla Stampa, il Colonnello, da vecchio golpista qual’era, non si è mai fidato dei generali e ha proceduto a numerose purghe. Gli uomini in divisa per 42 anni lo hanno temuto, ma non lo hanno mai davvero amato. Così ora molti di loro o si danno alla fuga o passano con i rivoltosi soprattutto nelle città lontane da Tripoli. Gheddafi può contare solo sulle milizie private e su una piccola parte dell’esercito; è questa la ragione di una mossa altrimenti inspiegabile come quella di reclutare centinaia o forse migliaia di miliziani africani.

La conseguenza è inevitabile: sangue, sangue e ancora sangue. L’impressione è che Gheddafi alla fine sarà costretto a fuggire. L’immagine, ridicola, del Raìs in auto con l’ombrello ricorda quella di Saddam Hussein braccato dagli americani nei giorni della caduta di Bagdad. In ogni caso la situazione rischia di essere molto imbarazzante per l’Italia. Se il regime dovesse cadere, la Libia tornerebbe ad essere il porto di partenza verso le nostre coste per decine di migliaia di immigrati. Se dovesse resistere, per noi sarebbe imbarazzante mantenere buoni rapporti con un leader sanguinario. E in entrambi i casi ballerebbero contratti milionari per le nostre aziende. Eni in testa. Non dimentichiamocelo: buona parte dei nostri approvvigionamento energetici dipende proprio dal Nord Africa. L’esplosione “controllata” rischia di essere, comunque, devastante per gli interessi del nostro Paese.

Non abbiamo scelta e l’Italia non può certo influire sugli eventi, ma è inevitabile chiedersi: il prezzo è giusto?

Di Marcello Foa, 22-02-2011

giovedì 24 febbraio 2011

Una via per ALMIRANTE a Marnate e il ridicolo antifascismo del 2000

Chi non muore si rivede. Mai detto più vero è stato confermato dall'uscita del "Comitato Antifascista" di Busto Arsizio.
A parte che non si capisce perchè queste organizzazioni esistano ancora nel 2011, ma ancora meno si sente il bisogno di sentire le boiate che esclamano gli appartenenti a questo comitato.

Boiate. Solo boiate possono essere definite le parole pronunciate nel comunicato inviato a varesenews riguardo alla proposta della giunta comunale di Marnate di dedicare una via a Giorgio Almirante, leader storico del MSI. Così come boiate sono le parole pronunciate dal consigliere di minoranza in quota PD di Marnate che addirittura è andato a trovare dichiarazioni di Almirante scritte in tempo di guerra riguardo alle proprie idee Fasciste e razziste, senza sapere che tali dichiarazioni sono state enunciate e condivise anche da esponenti dell'attuale centrosinistra, come Fo o Bocca.

Probabilmente il comitato antifascista, che ha definito l'idea della giunta comunale "un'offesa alla storia", mostra di capirne ben poco di storia, nonchè di politica. Almirante è stato un leader carismatico, buono e onesto, e di certo, al sentire le parole di questi antifascisti del 2000 si sarebbe fatto delle grasse risate.

Non possiamo che esprimere compassione per questi novelli partigiani dell'era moderna, che dimostrano con i fatti di essere ancora legati a vecchie ideologie e vecchi modi di pensare, figli di un pensiero che ha dimostrato tutto il suo orrore in ogni parte del mondo, Italia compresa, e che dovrebbe essere stato superato nel 1989, con la caduta del muro.

Si Sveglino lor signori. Berlino è di nuovo unita, e la DDR non esiste più. Adesso la Germania è una sola, ve ne siete accorti?? E l'Italia sta faticosamente cercando di far pace con la propria storia, nonostante qualche vecchio parruccone che ancora tenta di alimentare l'odio permanente e la distinzione tra "democrazia" e "fascismo", ovvero, tutto ciò che non è democratico (Ovviamente il concetto di democrazia è un po' travisato in quest'ottica....)

Via Almirante si farà, con tanti saluti a queste associazioni vecchie e stantie, che sembrano vivere in uno stato di coma permanente (come il protagonista del film good-bye Lenin), oppure in un sogno, anzi, un incubo, di rosso vestito.

martedì 22 febbraio 2011

CONTRO OGNI LOGICA DIVISIONARIA!


Nota della Direzione Nazionale di Giovane Italia

Esprimiamo la nostra più grande soddisfazione per la scelta del Consiglio dei Ministri di stabilire la data del 17 marzo come giorno per festeggiare i 150 anni dell'Unità d'Italia. Finalmente si supera ogni logica divisionaria, per onorare coloro che hanno scelto di ricostruire un'Unità d'Italia e che oggi trasferiscono idealmente a noi il testimone. Esprimiamo inoltre particolare gratitudine al Ministro e Presidente nazionale dell'organizzazione giovanile, Giorgia Meloni, che si è battuta più di tutti per celebrare questa festa, e che ha espresso all'interno del Consiglio dei Ministri la voce di un'intera generazione. Riprendendo le splendide parole di Benigni, ci auguriamo che questo sia solo il primo passo per sentirci ogni giorno, sempre di più Italiani.
Negare il valore del Risorgimento come collante della nostra sensibilità culturale e del nostro bagaglio identitario è fuori luogo e fuori tempo, ed è per questo che la polemica sulla perdita economica per un giorno di festa, suonava sinceramente strumentale. Si può ridurre la memoria ad una questione di bilancio?
Preferiamo che per un giorno il mondo dell'economia si fermi, che si blocchi la retorica sulla produttività mancata, che si eliminino tutti i tentavi strumentali di far emergere leghismi di ogni tipo e di ogni genere e ci si interroghi su cosa è oggi il senso profondo di un'appartenenza, sul valore dell'identità nazionale nel tempo globalizzato e secolarizzato, e su come tramandare l'esempio di quei folli ventenni agli italiani che verranno.

lunedì 21 febbraio 2011

DESTRA: OGNUNO LA SUA

Destra e sinistra sono concetti che si affermano con la democrazia parlamentare come collocazioni o meglio “posti a sedere”… Nei secoli ci si sforza di riempire le sedie di significato: contingente (su una scelta specifica) filosofico, sociale o sociologico, internazionale, persino antropologico...

Con la caduta del Muro e la fine del mondo bipolare, la comunità “intellettuale” (quelli che leggono, scrivono e poi si rileggono) ha ritenuto più o meno giustamente che le categorie sino ad allora date per scontate non avessero più ruolo, ragion d’essere, legittimità o utilità… Il problema è che questa élite di pensatori e scrittori non rappresenta quasi nulla per la stragrande maggioranza dei cittadini europei e occidentali che - se legge - legge qualcosa di già digerito dieci volte, banalizzato, volgarizzato e generalmente stantio. Quindi, le analisi dei politologi e degli scienziati della politica sono giuste in teoria ma - come spesso accade - la realtà (che è quella cosa che resta uguale indipendentemente dai nostri desideri) non ne prende alcuna nota e va avanti per la sua strada ignorandoli.



Dopo Fukuyama tutti diventano liberali… Con Wojtyla, a un certo punto, tutti si riscoprono cattolici… Con Huntington tutti si riscoprono patriottici… E si cerca di smembrare ognuna di queste categorie nella propria scatola. Il tentativo di definire nuove categorie o clivadges è rimasto puro quanto sterile esercizio accademico.

Nella vulgata, “destra” e “sinistra” continuano a sopravvivere e a farla da padroni nell’irreversibile semplificazione della cronaca politica.

Il problema nasce a questo punto: le scatole sopravvivono e sono scatole così enormi, ingombranti e opache che la quasi totalità delle persone ne vede solo l’esterno. Si parte quindi alla rinfusa per dare nuovo contenuto ai contenitori, ognuno improvvisando a modo suo. I politici di lungo corso cercano di riattualizzare le tradizioni, quelli nuovi e rampanti strillano le loro banalità per appropriarsi di storie e blasoni che non gli appartengono. Intellettuali che hanno cambiato ambizioni o mecenati - o più semplicemente hanno esaurito un filone o hanno litigato con gli amici di sempre - ridefiniscono le categorie aggiustandole sartorialmente attorno a se stessi. Si verificano così “incursioni”, “commistioni”, “trasformazioni”, “tradimenti”, “contaminazioni” e varie altre virgolettature che - prontamente incialtronite dalla stampa quotidiana (che fa il suo mestiere di distribuire ai lettori il mondo in pillole e quindi banalizzare, frullare e maciullare tutto in un pappone insipido da speziare e condire con sapori forti per far finta che sappia di qualcosa) - confondono ancor di più idee e ruoli, personaggi e storie.

Quelli che più si impegnano a conservare le caselle sono i sinistrorsi bobbiani come Marco Revelli (che è quasi ossessionato dal compito di preservatore dei significati di destra e sinistra). La sinistra ovviamente è la più attrezzata a gestire la guerra dei significati: è soverchiante in campo accademico, mediatico, giornalistico, editoriale e persino in campo pubblicitario, nelle arti e nell’intrattenimento… Quindi ha in mano la lavagna e i gessetti per fare di continuo la lista dei buoni e dei cattivi. E loro sono sempre i buoni…

Ma il gioco ha smesso di funzionare da quando, inesorabilmente, la sinistra è entrata in crisi in quanto facciata senza palazzo e contenitore senza contenuto. Veltroni le ha dato il colpo di grazia, ma non è stata tutta colpa sua. La logica della creazione di una realtà che contenesse tutto ciò che fosse accattivante e positivo con l’etichetta di “sinistra”, in alternativa a tutto ciò che fosse odioso e deprecabile - anche dentro ognuno di noi, così da proiettarlo all’esterno ed esorcizzarlo - etichettato come “di destra”, non poteva funzionare in eterno.

Funzionava finché la sinistra vinceva - perché più che avere ragione alla gente piace essere vincente - ma alla prima sconfitta ha cominciato a sgretolarsi. Certo, sopravvivono gli apparati, le conventicole, i controlli e i controllori, ma l’era dell’identificazione e del consenso automatico è definitivamente tramontata.

In ossequio alle leggi della fisica e della politica - che, entrambe, non conoscono spazi vuoti - la perdita di attrattiva della categoria “sinistra” ha ridato progressivamente attrattiva all’etichetta “destra”. Ma come dopo uno tsunami, che aveva travolto tutto ciò che era secolarmente considerato di destra sovvertendone i significati, la risacca ha riportato a riva ben pochi oggetti integri e, perlopiù, rottami e detriti.

Come nei film sui naufragi, ben presto sono apparsi sulla battigia indigeni con cappelli piumati, giubbe decorate e sciaboloni - o magari leggiadri abiti da ballo - ritrovati in qualche baule spiaggiato.

Come dopo ogni cataclisma naturale o sociale che si rispetti, essendo stato tutto rimestato, ti trovi il duca che fa il cameriere e il mezzadro che è diventato proprietario terriero e fa il gattopardo. Che ciò sia bene o male ognuno giudichi da sé.

Mao sosteneva che se c’era «grande confusione sotto il cielo» la situazione era «eccellente». Ma lui era un grande capo sovversivo che voleva spazzare via un impero millenario. A noi, la confusione ha sempre dato un tantino fastidio.

Forse la destra semplicemente non c’è più. Forse non c’è mai stata. Forse è meglio così. Potremmo dimenticarne il suono, senza grandi rimpianti, se solo fossimo capaci di dare un altro nome a ciò che siamo ma - soprattutto e di più - a ciò a cui tendiamo, a ciò che vorremmo essere.

Per intanto ognuno dice “destra” o - quasi per pudore - “centrodestra”, ma forse intendendo cose diverse. Qualcuno dice “tizio non è più di destra”, ma poi ammette “io non lo sono mai stato”. Altri reinterpretano, ridefiniscono e riscrivono. Qualcun altro, semplicemente, se ne frega, cavalca l’onda positiva e, semmai, quando dirsi di destra sarà definitivamente passato di moda, si definirà in qualunque altro modo gli possa convenire in quel momento. Difficile a crederlo, ma ne esiste di gente così… Soprattutto in politica.

di Marcello De Angelis

giovedì 17 febbraio 2011

MANIFESTO DI "GIOVENTU' RIBELLE" INIZIATIVA PER IL 150esimo DELL'UNITA' D'ITALIA

MANIFESTO
GIOVENTU' RIBELLE

''Ci hanno tacciato di essere facinorosi. Pazzi. Gente che non ha nulla da perdere. Adesso che tutto e' riuscito battono le mani e plaudono ai giovani eroi. In verita', abbiam vissuto fatti che sembrano usciti dalla fantasia di un romanziere. '' Dal Diario di uno dei Mille.

Gioventu' Ribelle e' un programma del Ministero della Gioventu', realizzato in collaborazione con il Comitato per le celebrazioni del 150esimo anniversario dell'Unita' d'Italia, l'Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Museo Centrale del Risorgimento e numerosi altri enti ed istituzioni. Gioventu' Ribelle e' innanzitutto un tributo alla generazione che 150 anni fa fece da levatrice al sogno di unita' nazionale. E' un progetto che si snoda attraverso molteplici iniziative e lungo l'intero territorio italiano, realizzato per coinvolgere i giovani di oggi in un viaggio nella memoria appassionante, ma anche ricco di suggestioni per valorizzare il proprio presente.

Il programma Gioventu' Ribelle si apre ufficialmente con la grande mostra che dal Vittoriano di Roma e dall'inaugurazione del novembre 2010, si muovera' incontro alle principali citta' italiane. Prima di far ritorno nella capitale verso la fine del 2011, arricchita con i contributi che giungeranno dalle tappe precedenti. Sara' una mostra, realizzata da Comunicare Organizzando, che combinera' l'uso di nuove tecnologie con cimeli originali, nella volonta' di far vedere come le idee di alcuni dei protagonisti del nostro Risorgimento riescano a parlare anche a oggi alle nuove generazioni.

Gioventu' Ribelle e' un percorso guidato attraverso i luoghi della memoria dell'Unita' d'Italia. Un cammino da fare a piedi, in bicicletta o in treno, lungo le Strade della Liberta', sulle tracce di quei ragazzi generosi e ribelli che con la loro fede, talvolta con il loro sangue, innalzarono una nazione dove prima non c'era. Il progetto e' realizzato in collaborazione con Ferrovie dello Stato, AIG - Associazione Italiana Alberghi per la Gioventu' , Mondadori.

Gioventu' Ribelle e' la musica di ieri e di oggi. Grandi concerti a cui parteciperanno i piu' importanti artisti italiani di oggi. Ma e' anche l'occasione per riscoprire la musica che faceva palpitare i giovani cuori di 150 anni fa, contribuendo a formare nelle coscienze di allora il sentimento dell'unita' d'Italia. Il progetto e' realizzato in collaborazione con il Ministero della Difesa ed MTV Italia.

Gioventu' Ribelle e' un tour teatrale che attraversera' tutta la penisola per descrivere le gesta dei giovani ribelli, la loro solidarieta', insieme alla bellezza delle citta' da cui provenivano. Un lungo viaggio che grazie ai testi e alla musica popolare rendera' possibile raccontare l'Italia attraverso le patrie diffuse che la compongono e la arricchiscono. Il progetto e' realizzato in collaborazione con Rsi Group e Moa Festival.

Gioventu' Ribelle e' un videogioco per immedesimarsi nei ragazzi e nelle ragazze che fecero l'Italia. Per imparare le tappe storiche che condussero all'unita' della nazione. Uno strumento ludico e formativo nello stesso tempo. Il mezzo piu' diffuso di intrattenimento tra le giovani generazioni messo al servizio della memoria nazionale. Il progetto e' realizzato in collaborazione con il Gruppo Produttori Italiani di Videogiochi di Assoknowledge, Confindustria.


PER SAPERNE DI PIU' http://www.gioventuribelle.it

lunedì 14 febbraio 2011

IL MASSACRO DI CIVILI ANGLO-AMERICANO DI DRESDA.


Dresda, una inutile strage voluta dai vincitori

Anche quest'anno è passato sotto silenzio uno dei peggiori crimini del secondo conflitto mondiale: il bombardamento di Dresda del 13 febbraio 1945.
Dresda non era mai stata toccata seriamente dalla guerra sia per la sua posizione geografica sia perché non aveva né industrie né impianti militari rilevanti (era addirittura priva di difesa antiaerea) ed era così forte la convinzione che fosse esente da pericoli che le autorità tedesche vi avevano fatto affluire le centinaia di migliaia di profughi (soprattutto vecchi, donne e bambini) in fuga dalle regioni orientali sotto l’incalzare della Armata Rossa e gran parte dei feriti provenienti dal fronte. Si pensava che considerazioni umanitarie e il rispetto per una Città d'arte amata in tutto il mondo avrebbero indotto gli angloamericani a risparmiarla.
Invece la distruzione arrivò su questa Città del febbraio del '45 quando le sorti della guerra erano ormai segnate. Fu una carneficina.
Alle 22,15 del 13 febbraio oltre 500 bombardieri inglesi Lancaster scaricarono sulla città indifesa le terribili bombe dirompenti block buster. Poi si allontanarono in direzione di Strasburgo.
I soccorritori iniziarono ad affluire dalle città vicine, mentre gli scampati escono lentamente dai rifugi.
Era quello che gli inglesi attendevano: far uscire la gente, far arrivare i soccorritori e tornare a colpire.
Ore 1,28 del 14 febbraio arriva, indisturbata come la prima, la seconda ondata. Questa volta però i bombardieri pesanti della Raf portano nelle stive 650.000 bombe incendiarie caricate a benzina e a fosforo in grado di sviluppare un calore che fonde il ferro (la versione aggiornata, le famigerate bombe al napalm, sarà poi sperimentata dagli americani in Vietnam). L’effetto fu devastante.
Dresda si trasformò in un immenso rogo esteso un centinaio di chilometri quadrati e visibile ad oltre 300 Km di distanza.
All’interno si sviluppa una temperatura che arriva fino a 1.000 gradi che porta alla formazione di una corrente d’aria ascensionale d’inaudita potenza e calore. Dalle case già sventrate dalle bombe dirompenti è aspirata ogni cosa e scaraventata all’interno della fornace. Chi non muore divorato dalle fiamme soccombe nei rifugi, asfissiato per mancanza d’ossigeno o intossicato dal monossido di carbonio.
All’alba del 14 febbraio, quando per i sopravvissuti delle zone periferiche della città sembrava che il peggio fosse passato, ecco giungere la terza ondata. Gli americani, che non potevano essere da meno degli inglesi, con le loro “fortezze volanti” scaricarono su ciò che restava della città e dei suoi abitanti il loro carico di morte e distruzione mentre i caccia “mustang” a volo radente mitragliavano le colonne di profughi che cercavano di fuggire dall’inferno di Dresda.
In totale su Dresda furono sganciate 2.700 tonnellate di bombe, un quantitativo enorme, se confrontato con quello gettato su altre città tedesche. Ma la preferenza data alle bombe incendiarie, che rappresentarono circa il 70% degli ordigni lanciati, causò la più spaventosa tragedia della guerra: i morti accertati furono 135.000 (la stima più accreditata fa però salire a circa 200.000 il numero delle vittime per il grande afflusso di profughi, moltissimi dei quali non ancora censiti).
Questo fu Dresda: un orribile massacro di civili che non trovò alcuna giustificazione dal punto di vista militare. Fu il macabro record di disumanità, non eguagliato neanche dai bombardamenti atomici sul Giappone che causarono “solo” 150.000 morti.
Gli angloamericani ancora oggi con sorprendente cinismo “giustificano” quello spaventoso massacro affermando che “ fu un inevitabile prezzo da pagare per la liberazione dell’Europa e del mondo dalla barbarie nazista”…….
In realtà fu il desiderio di infliggere una punizione esemplare non al regime hitleriano, ma al popolo tedesco e nel contempo lanciare un monito all’alleato sovietico (quello che oggi è toccato a Dresda domani potrebbe toccare a Mosca) che animò l’ordine impartito da Churchill e pienamente condiviso dall’alleato americano.
Al processo di Norimberga sul banco degli imputati non avrebbero sfigurato gli autori e, soprattutto, il mandante del bombardamento di Dresda.

di Gianfredo Ruggiero (Fonte: Excalibur)


domenica 13 febbraio 2011

L'UNITA' D'ITALIA E' CATTOLICA!

Gli italiani sono “gli azzurri”. Nessuno sa che con i 150 anni dell’Italia unita, si festeggiano anche i 100 anni dell’ “azzurro” come colore nazionale. Viene dall’iconografia mariana e la dinastia sabauda ne fece un suo simbolo.

Scrive Luigi Cibrario, storico della monarchia: “quel colore di cielo consacrato a Maria è l’origine del nostro color nazionale”.

Tutto cominciò il 21 giugno 1366. Amedeo VI di Savoia salpa da Venezia per la Terra Santa, per la crociata voluta da papa Urbano V e sulla sua nave ammiraglia – accanto al vessillo dei Savoia – fa sventolare uno stendardo azzurro con una corona di stelle attorno all’ immagine della Madonna, per invocare “Maria Santissima, aiuto dei cristiani”.

L’azzurro di quel vessillo mariano fu ripreso da alcuni cavalieri sabaudi che, in onore alla Santa Vergine, cinsero delle sciarpe azzurre sull’uniforme.

Ne nacque una tradizione, fra gli ufficiali savoiardi. L’azzurro entrò a far parte dei simboli dinastici e il 10 gennaio 1572, con Emanuele Filiberto, la sciarpa azzurra diventò ufficialmente parte dell’uniforme. E poi dell’araldica del Regno d’Italia.

Pare che sia diventato il nostro colore ufficiale nelle competizioni sportive, per la prima volta, a Milano, il 6 gennaio 1911, per la partita di calcio Italia-Ungheria: quindi cento anni fa.

La piccola storia di questo simbolo fa capire che la tradizione cattolica impregna totalmente la storia italiana. D’altra parte il Regno dei Savoia è sempre stato cattolicissimo.

Con la restaurazione fu l’unico regno italiano, insieme allo Stato pontificio, ad abolire il Codice napoleonico: “la dinastia sabauda” scrive De Leonardis “aveva dato alla Chiesa cinque beati e vantava titoli di fedeltà al Cattolicesimo che fino al 1848 erano forse superiori a quelli dei Borbone e degli Asburgo; a differenza di questi ultimi i sovrani sabaudi non si erano compromessi con le idee illuministe e massoniche”.

Sarà l’ultimo re d’Italia infine a donare alla Chiesa la più preziosa delle reliquie: la Sindone.

Che l’unificazione d’Italia sotto il re sabaudo – con Cavour – abbia preso la forma di un conflitto contro la Chiesa è una di quelle tragedie storiche che probabilmente nessuno volle in maniera deliberata.

Basti pensare che il Regno sabaudo nel suo Statuto proclamava il Cattolicesimo come sua religione ufficiale. E poi c’è anche il cattolicesimo di molti patrioti (come il Pellico) e infine il fatto che lo stesso Pio IX era un entusiastico sostenitore dell’unificazione nazionale (per via federale).



Non solo quando fu eletto, con il Motu proprio “Benedite, Gran Dio, l’Italia”, quando il nome del Pontefice veniva invocato dai patrioti (ed erroneamente costoro pretesero di trascinare il Papa a far la guerra all’Austria: da qui il no e la rottura).
Pio IX restò legato all’ideale dell’Italia sempre, anche nel pieno del conflitto risorgimentale. E questo è un aspetto quasi sconosciuto.

Come i cattolicissimi Savoia, anche il Papa visse un drammatico conflitto interiore fra il dovere di difendere la Chiesa – che veniva aggredita e spogliata dal nuovo Stato – e la sua personale simpatia per la causa nazionale.

Un giorno un conte germanico in visita al Santo Padre gli manifestò il suo sdegno per l’aggressione in corso ai danni dello Stato Pontificio e della Chiesa, e, dopo averlo ascoltato, Pio IX mormorò ai suoi: “Questo bestione tedesco non capisce la grandezza e la bellezza dell’idea nazionale italiana”.

Errori tragici ve ne furono da entrambe le parti. E certamente l’idea di unificare l’Italia non per via pacifica e federale come prospettava il Papa, ma per via militare e sotto una sola dinastia fu devastante anche per il meridione d’Italia, dove da secoli governava una monarchia legittima quanto quella sabauda.

Ben ventidue anni fa, nel 1988, quando ancora non era emersa la Lega Nord, scrissi un libro di denuncia contro il Risorgimento come “conquista piemontese” e – curiosamente – fu pubblicato dalla Sugarco di Massimo Pini, un editore molto vicino al garibaldino Bettino Craxi. Il libro – riedito sei anni fa col titolo “La dittatura anticattolica” uscì quando nessuno metteva in discussione il Risorgimento.

Oggi che – al contrario – è diventata una moda, vorrei sommessamente dire il mio “Viva l’Italia!” e penso che si debba festeggiare il 17 marzo.

Per noi cattolici c’è comunque qualcosa di provvidenziale nel Risorgimento italiano (anche nella fine del potere temporale dei papi, come ebbe a dire Paolo VI), perché Dio sa scrivere diritto anche sulle righe storte degli uomini.
E infine ha fatto salvare l’indipendenza, l’unità e la libertà dell’Italia proprio ai cattolici e al Papa, il 18 aprile 1948, a cento anni esatti dalla preghiera per l’Italia di Pio IX.
Del resto il cattolicesimo era il solo cemento degli italiani. Infatti cosa li univa nell’Ottocento? La lingua no. Nel 1861 gli italiofoni erano solo il 2,5 per cento della popolazione, perlopiù toscani (gli stessi Savoia a corte parlavano francese).
Nemmeno l’economia li univa: la Sicilia era più integrata economicamente all’Inghilterra che alla Lombardia e il Piemonte più alla Francia che alla Sicilia.
Ciò che univa il Paese erano Roma e le tradizioni cattoliche. Tanto è vero che il poema della risorgente nazione italiana fu il poema della Provvidenza, “I promessi sposi” del cattolicissimo Manzoni.

E fu deciso “a tavolino” che la lingua italiana fosse, da allora, quella della Divina Commedia dantesca, cioè il più grande poema mistico e addirittura liturgico della storia della Chiesa.

Perfino il tricolore adottato dai Savoia – nato apparentemente ghibellino – è intriso di tradizione cattolica.
Lo studente bolognese Luigi Zamboni, che col De Rolandis lo concepì nel settembre 1794, nell’entusiastica attesa dell’arrivo napoleonico che avrebbe liberato dal giogo dello Stato pontificio, partì dallo stemma di Bologna, quella croce rossa in campo bianco che viene dalle crociate e dalla Lega lombarda (a cui Bologna appartenne). Al bianco e rosso lui aggiunse “il verde”, che – disse – era “segno della speranza”.

In effetti simboleggiava la speranza nella tradizione cattolica, come virtù teologale, insieme alla fede, che aveva come simbolo il bianco, e alla carità (il rosso).

Non a caso il primo “bianco, rosso e verde” lo troviamo proprio nella Divina Commedia, sono i vestiti delle tre fanciulle che, nel Paradiso terrestre, accompagnano Beatrice e che simboleggiano appunto le virtù teologali (Purg. XXX, 30-33).

Lo stesso “mangiapreti” Carducci, che certo non era ignaro di Dante, né di dottrina cattolica, nel suo discorso ufficiale per il primo centenario della nascita del Tricolore, a Reggio Emilia, dà, a quei tre colori, proprio il significato della Divina Commedia (fede, speranza e amore, sia pure in senso laico).

E’ ovvio che la Chiesa sia intimamente legata a questa terra “onde Cristo è romano” e pare evidente la missione religiosa dell’Italia (sembra che la parola I-t-a-l-y-a in ebraico significhi “isola della rugiada divina”).

Nessuno però sa che è stata addirittura la Madonna in persona a “consacrare” il tricolore nell’importante apparizione del 12 aprile 1947 a Roma, alle Tre Fontane, a Bruno Cornacchiola (il mangiapreti che si convertì).

Era un fanciulla di sfolgorante bellezza e indossava un lungo abito bianco, con una fascia rossa in vita e un mantello verde.

Consegnò al Cornacchiola un importante messaggio per il Santo Padre. E poi alla mistica Maria Valtorta spiegò che apparve “vestita dei colori della tua Patria, che sono anche quelli delle tre virtù teologali, perché virtù e patria sono troppo disamate, trascurate, calpestate, ed io vengo a ricordare, con questa mia veste inusitata, per me, che occorre tornare all’amore, alle Virtù e alla Patria, al vero Amore”.

Aggiunse che era apparsa a Roma perché “sede del papato e il Papa avrà tanto e sempre più a soffrire, questo, e i futuri, per le forze d’Inferno scagliate sempre più contro la S. Chiesa”.

Aggiunse che apparve per la terribile minaccia del “Comunismo, la spada più pungente infissa nel mio Cuore, quella che mi fa cadere queste lacrime”.

Essa è “la piovra orrenda, veleno satanico” che “stringe e avvelena e si estende a far sempre nuove prede”, una minaccia “mondiale, che abbranca e trascina al naufragio totale: di corpi, anime, nazioni”.

Era in effetti il 1947. L’Armata Rossa stava marciando su mezza Europa, fino a Trieste. E l’Italia il 18 aprile 1948 si salvò solo per l’impegno del papa e della Chiesa, da cui venne alla patria uno statista come De Gasperi, che salvò la libertà e così compì davvero il Risorgimento.

Antonio Socci

Da “Libero”, 13 febbraio 2011

La sala del Tricolore, sede del consiglio comunale di Reggio Emilia, dove fu esposto per la prima volta nel 1797 la nostra bandiera.

venerdì 11 febbraio 2011

Giorgia Meloni (Giovane Italia). SOSTITUIAMO IL 17 MARZO AL 25 APRILE!

Cresce il dibattito sul 17 marzo, giorno in cui si celebrerà il 150º anniversario dell’Unità d’Italia. Si discute sul senso che deve avere e sulla necessità o meno di celebrarlo alla stre gua di una festa nazionale. Forse non è un male, almeno siamo tutti costretti a un confronto più onesto e trasparente. Personalmente, resto convinta che almeno una volta ogni 150 anni ci sia bisogno di 24 ore per ricordare una grande avventura collettiva che innalzò una nazione, dove prima c’erano solo un popolo lacerato e un territorio conteso tra potenze straniere.

Ventiquattr’ore per celebrare le ragioni del nostro futuro in comune. Per ritrovare stima e coscienza della propria identità culturale. Per rinsaldare il legame tra le generazioni nel tempo, e insieme il legame tra gli uomini e le donne che vivono oggi nello stesso luogo. Non mi sembra cosa da poco. Credo valga la pena dedicargli un giorno di festa. Naturalmente a patto che sia davvero tale e non solo un giorno di vacanza. Che lo si festeggi insomma, come un compleanno. Vorrei che ciò avvenisse non solo nel 2011, ma tutti gli anni. Questo è il senso del 17 marzo e non riesco a condividere le opinioni, talvolta molto autorevoli, che vorrebbero declassare questa data a una celebrazione di serie B. Non mi pare di aver mai udito alcuna voce levarsi in difesa della produzione o dell’istruzione nazionale per il 2 giugno o il 25 aprile.

Non vorrei che il 17 marzo si celebrasse a scapito di altre date, sia chiaro. Eppure avrebbe maggior senso festeggiare il giorno dell’unità degli italiani anziché momenti in cui gli italiani si sono divisi, come quando prevalse nel referendum l’ordinamento repubblicano sull’ordinamento monarchico. E sono colpevole di apologia del fascismo se ritengo che la data di nascita della nazione italiana si collochi nel Risorgimento e non nella Liberazione? La verità è che per troppi anni abbiamo riempito l’assenza di una giornata dedicata all’unità del nostro popolo ( come avviene per tutti gli altri popoli del mondo) con altre, importanti certamente ma non altrettanto unificanti. Si dirà, ma il giorno dell’Unità d’Italia non unisce affatto, semmai divide.

Lo ha detto il presidente della Provincia di Bolzano, lo fanno notare, anche se con molto garbo democratico, alcuni esponenti politici dell’attuale maggioranza. È proprio per questo che abbiamo un disperato bisogno di festeggiare il 17 marzo. Per ricordare innanzitutto. Che troppo sangue è stato versato da italiani e austriaci per giungere ad una pace che a Bolzano ha portato autonomia e prosperità, che le navi dei Mille si chiamavano Piemonte e Lombardo, che però la nostra nazione era stata pensata e voluta federalista, ma senza la rivolta della popolazione siciliana non si sarebbe destata la voglia d’Italia nel Meridione che poi tutto travolse. Spero sia anche l’occasione per ricordare a coloro che considerano i giovani di oggi incapaci di rappresentanza politica e civile, che fu una generazione di giovani ribelli a fare l’Italia.

Gente di vent’anni o anche meno, armata di nuovi sogni e vecchi fucili, gettò se stessa contro le baionette di un esercito straniero infinitamente più grande e potente, senza paura. E morì, come Goffredo Mameli e tanti altri. Nella speranza che le successive generazioni non avrebbero lasciato cadere il testimone insanguinato dell’unità fra gli italiani. Non ci si sente un po’ piccini a parlare di fabbriche e produttività con il rischio che quei ragazzi ci ascoltino?

giovedì 10 febbraio 2011

GIOVANE ITALIA RICORDA I MARTIRI DELLE FOIBE CON STRISCIONI E ANNUNCI FUNEBRI

I militanti della Giovane Italia hanno voluto ricordare in tutta la provincia di Varese il dramma dell'esodo e delle foibe che 66 anni fa colpì la nostra gente nelle sfortunate terre di Istria, Quarnero e Dalmazia.

I nuclei di Varese e Busto Arsizio hanno appeso due striscioni sui cavalcavia dell'autostrada Varese-Milano, uno con scritto "foibe, io non scordo" e l'altro più provocatorio "Istria Fiume Dalmazia, nè Slovenia nè Croazia"





Inoltre abbiamo voluto ricordare in maniera provocatoria la separazione di quelle italianissime città dalla nostra madrepatria attraverso degli "annunci funebri" appesi nei centri città di Varese, Busto, Gallarate e in altri centri minori della provincia.








Volantinaggi nelle scuole e gazebo in piazza sabato scorso hanno preceduto e seguito queste iniziative, che speriamo possano servire a sensibilizzare le coscienze dei tanti ragazzi che ignorano questi tragici fatti della nostra storia nazionale.

GIOVANE ITALIA VARESE.

mercoledì 9 febbraio 2011

LE INIZIATIVE A VARESE PER RICORDARE LE FOIBE E GLI ESULI.

Il circolo Ardito Borgo di Busto Arsizio (via Caboto 3/c) organizza oper sabato 12 febbraio a partire dalle ore 18 un incontro sul tema "Tra foibe ed esodo, Il dramma degli esuli”; con, in serata, tanto di "concerto identitario".
Interverranno:
- avv. Giovanni Adami vicepresidente A.D.E.S (AMICI e DISCENDENTI degli ESULI Giuliani, Istriani, Fiumani e Dalmati.)
- sen. Gian Pietro Rossi (Sindaco emerito della città di Busto Arsizio)
- Checco Lattuada (Consigliere Comunale, Destra del Popolo per l'Italia-PDL)


Sabato 12 Febbraio presso l'aula magna dell'università Insubria di Varese (Via Ravasi, dietro al blockbuster) celebrazioni ufficiali con le istituzioni organizzata dall'ASS.NAZ. Venezia Giulia e Dalmazia, alla presenza di esuli e di studenti. Verrano priettati filmati storici e documentari. Interverrà anche OTTAVIO MISSONI, il celebre stilista scappato dalla città dalmata di Zara, esule come tanti suoi sfortunati concittadini.


Martedì 8 Febbraio alle 16,30 presso il Salone – Atrio di Villa Recalcati (piazza Libertà 1) si terrà
la conferenza stampa di inaugurazione e di presentazione della Mostra Fotografica per il Giorno del Ricordo.
All’incontro con la stampa saranno presenti Francesca Brianza, Assessore provinciale a Turismo e Cultura; Sissy Corsi, Presidente Associazione Venezia Giulia Dalmazia – sezione di Varese.
La mostra sarà aperta al pubblico da martedì 8 febbraio a martedì 18 febbraio, da lunedì a giovedì, dalle 15 alle 18. Le scuole potranno visitare la mostra prenotandosi al numero 0332-252256.
Martedì 18 febbraio alle 21, nella Sala Convegni di Villa Recalcati verrà proiettato il film Cuore senza frontiere di Luigi Zampa

sabato 5 febbraio 2011

FOIBE E ESODO. IO NON SCORDO!


Il 10 Febbraio del 1947 veniva firmato a Parigi il trattato di pace tra le potenze vincitrici e quelle sconfitte della Seconda Guerra Mondiale. L'Italia, firmando il trattato, cedette alla Jugoslavia i territori di Istria, Fiume, Dalmazia e l'entroterra Triestino e Goriziano. In quel giorno, centinaia di migliaia di Italiani che vivevano in quei territori e che avevano provato sulla loro pelle la crudeltà della guerra per mano dei bombardamenti Anglo-Americani prima, dell'occupazione nazista poi, e infine della pulizia etnica dell'esercito jugoslavo, si trovarono di colpo senza una casa, senza una patria, estranei in terra nemica.
Da quel fatidico giorno, per almeno i dieci anni successivi, furono 350mila le persone che abbandonarono le loro case e tutti i loro averi per tornare in Italia, un'Italia che dalle terre adriatiche se ne era andata, e per non chinare la testa di fronte all'arroganza del governo comunista jugoslavo di Tito, colpevole di un'opera di slavizzazione e di pulizia etnica ai danni degli italiani sin dal 1943, che provocò almeno 15mila morti.

Oggi a più di 60 anni da quei tragici fatti, vogliamo ricordare tutti quegli esuli “italiani due volte”, per nascita e per scelta, dimenticati per tutto il dopoguerra dalla nostra classe politica figlia della resistenza e dei trattati di pace sciagurati di quegli anni, che in nome del potere calpestarono intere popolazioni e dimenticarono i nostri connazionali uccisi dai soldati di Tito in maniera barbara: deportati in campi di concentramento all'interno della Slovenia e della Croazia, annegati nel mare davanti a Fiume e Zara, uccisi in attentati e rappresaglie in tutto il territorio Istriano e Dalmata, ma sopratutto gettati vivi nelle Foibe, cavità profonde centinaia di metri nelle montagne attorno a Trieste, nel friulano e in Istria, nelle quali i prigionieri venivano gettati legati dal fil di ferro a gruppi anche di dieci per volta dopo aver subito torture e pestaggi lungo il tragitto. I soldati di Tito, alimentati da un'ideologia comunista che bollava tutti gli Italiani come fascisti e animati da un sentimento nazionalista slavo che considerava territorio Sloveno l'Istria, Fiume, la Dalmazia ma anche Trieste, Gorizia, Monfalcone, uccidevano parenti di soldati fascisti, soldati tedeschi, ma anche solamente avvocati, professori, preti, medici, nel nome della lotta al fascismo e alla borghesia, eliminando anche esponenti antifascisti che, una volta finita la guerra, avrebbero potuto opporsi al progetto espansionista slavo. Nelle alture che sovrastano la città di Trieste si trova la foiba di Bassovizza, eretta a monumento nazionale, nella quale secondo le stime più attendibili, furono gettate più di 2000 persone prelevate dalla città durante i 40 giorni di occupazione slovena, nel maggio 1945. Durante il coprifuoco la polizia segreta jugoslava, l'OZNA, prelevava di nascosto in tutta la città centinaia di triestini accusati di essere fascisti nemici di Tito (la stessa cosa avvene a Gorizia, migliaia di persone sparirono nel nulla), per poi rinchiuderli in carceri di fortuna e farli sparire nel nulla. Nelle sole città di Trieste e Gorizia furono arrestate circa 20mila persone e di più di 3000 di queste non si è più avuto notizia.

Il territorio Triestino fu amministrato dagli alleati sino al 1954, quando infine la città ritornò all'Italia per la felicità dei triestini che riempirono festanti le vie al passaggio dei primi soldati italiani. Ma per i territori Istriani e Dalmati la situazione non mutò e le città, i paesi, le campagne si svuotarono di tutti i loro abitanti che decisero di imbarcarsi per ricominciare una nuova vita. A Fiume l’esodo coinvolse circa il 90% della popolazione censita nel 1939. A Pola su circa 35-40mila abitanti ne rimasero 4mila, a Zara su 21mila scelsero di rimanere in circa 3mila. Negozi e case furono confiscati e dati a jugoslavi emigrati dall’interno della Slovenia e della Croazia. Molti istriani e dalmati trovarono accoglienza a Trieste, Udine, Roma, Ancona, Milano e anche Busto Arsizio e Varese; altri, circa 70mila, andarono all’estero, soprattutto in Australia. La nostra città si dimostrò tra le più accoglienti nel ricevere gli esuli e nel dare loro delle case, ma non in tutta Italia fu così.. Alla stazione di Bologna un treno che trasportava esuli diretti al sud italia fu bloccato dai lavoratori ferroviari in sciopero al grido di "Fascisti", al porto di Venezia l’arrivo della salma di Nazario Sauro, patriota italiano della prima guerra mondiale morto a Pola, viene fischiata dagli operai portuali. La colpa degli esuli era solo quella di voler rimanere Italiani, di non voler vivere sotto un regime comunista che aveva ucciso migliaia di persone e che voleva cancellare ogni traccia di italianità dalle città Istriane, dalle città e dalle isole della Dalmazia, che per secoli furono prima Veneziane e poi Italiane.
La furia ideologica ha impedito che gli esuli e i morti infoibati avessero un riconoscimento, fino al 2004, quando il 10 Febbraio fu dichiarato per legge "giorno del ricordo dei martiri delle foibe e degli esuli dell'Istria di Fiume e Dalmazia”.
In tutto il territorio nazionale ci saranno manifestazioni, deposizioni di corone di fiori, conferenze e incontri sul tema organizzate in collaborazione con il Comitato 10Febbraio, istituzioni e enti scolastici. Un’attenzione particolare va infatti agli studenti, perchè possano conoscere una tragedia che ancora oggi, nel 2011, troppo spesso viene osteggiata e negata da professori che insegnano una verità ideologizzata anziché una verità storica, come sarebbe loro dovere.

Se andate in vacanza in quei posti oggi, in Istria o sulla costa Croata, non meravigliatevi se sentite qualche anziano parlare italiano, se vedete sui muri dei palazzi il Leone veneziano di San Marco, se vedete targhe e monumenti di personaggi italiani. Se andate nelle città di Pola (Pula), Fiume (Rijeka), Capodistria (Koper), Ragusa (Dubrovnik) ricordatevi che siete su un pezzo d’Italia, che fu Italia per secoli, dove la nostra gente è stata strappata dalla propria terra.




Leslie Mulas
Presidente Giovane Italia Varese

mercoledì 2 febbraio 2011

BERTO RICCI, l'ortodossia della trasgressione


Roberto Ricci (detto Berto) (Firenze, 1905 – Bir Gandula, 1941) è stato uno scrittore, poeta e giornalista italiano. Fu uno dei più importanti pensatori fascisti, fondò la rivista L'Universale e collaborò con la Scuola di mistica fascista guidata da Niccolò Giani e Guido Pallotta. Scrisse su "Il Popolo d'Italia", "Critica fascista" e "Il selvaggio". Fu amico personale di Indro Montanelli con cui collaborò a L'Universale.

Berto Ricci fu professore di matematica a Prato, Palermo e Firenze. Da giovane ebbe simpatie per l'anarchia ma nel 1927 aderì al fascismo, vedendo nel movimento di Benito Mussolini l'attuazione delle idee sociali e vitaliste che da sempre Ricci aveva coltivato. Nel 1931 fondò la rivista "L'Universale". Non navigò mai particolarmente nell'oro, tanto che in molti - l'aneddoto verrà narrato più volte da Indro Montanelli e Giampiero Mughini - hanno ricordato l'episodio del "banchetto" nuziale composto unicamente di sette cappuccini offerti da Ricci ai pochi convenuti.

Nel panorama culturale degli anni '30 mostrò un particolare attivismo, dialogando o collaborando con personalità come Giuseppe Bottai, Julius Evola, Ernesto De Martino, Romano Bilenchi, Ottone Rosai, Camillo Pellizzi. Interessato lettore de “L’Universale”, Mussolini fece convocare Ricci Palazzo Venezia nell’estate del 1934. Il "duce" si complimentò con lo scrittore e i suoi collaboratori, invitandoli a collaborare col “Popolo d’Italia”, dove tennero una rubrica, “Bazar”. Le posizioni quasi "di sinistra" de "L'Universale" vennero in compenso criticate da Roberto Farinacci, che vi vide un attentato al diritto di proprietà.

L'ultimo numero de "L'Universale" uscirà il 25 agosto 1935 con la giustificazione che allo scoppio della guerra d'Etiopia - nella quale Ricci combatterà come volontario - "non è più tempo di carta stampata".

Nel 1940 partecipò al primo convegno nazionale della Scuola di Mistica Fascista sostenendo che "la mistica fascista ripropone al Partito, alla Milizia, agli Organi dello Stato, agli Istituti del Regime, di continuo il tema della unità sociale, dinamica unità che non si limita all’assistenza economica e al miglioramento delle condizioni di chi lavora, insomma a una pratica demofila, ma punta sulla civiltà del lavoro, tende a realizzare una più elevata moralità e insieme un maggior rendimento collettivo (governo della produzione e del consumo, graduale ridistribuzione della ricchezza, bonifica e autarchia, il produttore compartecipe e corresponsabile dell’azienda, il lavoratore proprietario) e per questo, come ogni mistica chiamata a operare in concreto sulla storia e ad ergervi fondazioni durevoli, soddisfa anche a requisiti razionali”.

Di formazione anarchica, Ricci propose sempre una sua versione del fascismo a forte impronta sociale e intransigente nei confronti della borghesia (intesa come categoria dello spirito). Si fece sostenitore di "una modernità italiana 'da venire', condizione primissima della potenza nostra nazionale" e affermatore "d'una tradizione nostra civile, arricchita di millenaria cristianità ma sostanzialmente e robustamente pagana" (L'Universale, Anno II, n. 8-9, agosto settembre 1932).

Anche negli "anni del consenso" non si stancò di invocare una "rivoluzione perpetua" che combattesse quanti, di mentalità sostanzialmente a-fascista o addirittura antifascista, avevano trovato posto nel regime portandovi, secondo Ricci, una mentalità borghese estranea allo spirito della Rivoluzione fascista. Ovvero, per lo scrittore fiorentino, si trattava di accompagnare la lotta agli "inglesi di dentro" a quella puntata contro "gli inglesi di fuori".

Questa visione marcatamente sociale e votata a continuare la rivoluzione anche all'interno del regime è ben visibile in "Avvisi" come questo:

« Finché il controllore ferroviario avrà un tono coi viaggiatori di prima classe, e un altro tono, leggermente diverso, con quelli di terza; finché l’usciere ministeriale si lascerà impressionare dal tipo “commendatore” e passerà di corsa sotto il naso del tipo a “povero diavolo”, magari dicendo torno subito; finché l’agente municipale sarà cortesissimo e indulgentissimo con l’auto privata, un po’ meno col taxi e quasi punto con quella marmaglia come noi, che osa ancora andare coi suoi piedi; finché il garbo nel chiedere i documenti sarà inversamente proporzionale alla miseria del vestiario; eccetera eccetera eccetera; finché insomma in Italia ci sarà del classismo, anche se fatto di sfumature spesso insensibili agli stessi interessati per lungo allenamento di generazioni; e finché il principal criterio nello stabilire la gerarchia sociale degli individui sarà il denaro o l’apparenza del denaro, secondo l’uso delle società nate dalla rivoluzione borghese, delle società mercantili, apolitiche ed anti-guerriere; potremo dire e ripetere che c’è molto da fare per il Fascismo. Il che poi non è male. Non è male, a patto che lo si sappia bene » ( L'Universale, 10/2/1935)


Filosoficamente, si mise in contrasto con Giovanni Gentile, pubblicando in contrapposizione all’idealismo del filosofo siciliano un “Manifesto Realista” che suscitò l'interesse di Julius Evola, anch'egli impegnato negli stessi anni in una battaglia filosofica anti-idealista.

Ricci partì volontario per la Seconda guerra mondiale. Nel gennaio 1941 scrisse ai genitori: “Ai due ragazzi penso sempre con orgoglio ed entusiasmo. Siamo qui anche per loro, perché questi piccini vivano in un mondo meno ladro; e perché la sia finita con gl'inglesi e coi loro degni fratelli d’oltremare, ma anche con qualche inglese d’Italia”. Verso le 9 di mattina del 2 febbraio 1941, il suo plotone fu attaccato vicino a Bir Gandula, in Libia, da uno Spitfire inglese, che lo falciò di netto. Oggi è sepolto nel Sacrario Militare dei Caduti d'Oltre Mare di Bari con il nome di "Roberto Ricci".

martedì 1 febbraio 2011

UN TRICOLORE SU OGNI BALCONE A VARESE!

Giovane Italia Gallarate chiede a tutti i cittadini, in vista delle celebrazioni del 150° anniversario della Repubblica, fissate per il 17 marzo 2011 di esporre ad ogni finestra il tricolore italiano.

“In un periodo cosi difficile per il nostro paese, ci sembra doveroso ricordare il significato della nostra bandiera, che non è solo un pezzo di stoffa, ma ha quel valore ideale che oggi purtroppo si sta perdendo – si legge all’interno di un comunicato stampa -. Esporre il tricolore significa riappropriarsi di quella appartenenza ad uno stato, che 150 anni dopo la sua unità si trova davanti a fratture che devono essere superate.

Ma cosa significa veramente festeggiare l’unità d’ Italia? – si chiedono da Giovane Italia Gallarate. “Partiamo dall’irredentismo passando per le avventure coloniali, l’avvento del Fascismo e l’inizio dell’influenza americana, il dopoguerra, il Grande cinema Italiano e soprattutto il marchio di livello mondiale Made in Italy che ha fatto impazzire tutto il mondo. Questo vuol dire festeggiare l’Unità d’Italia, non certo l’unificazione fisica fatta dai Garibaldini che mille opinioni e critiche può generare. Sperando in una presa di coscienza di tutte le forze politiche, il movimento giovanile del PdL, chiede che i fatti successi a Varese lo scorso 2 giugno non si ripetano in alcuna città italiana. poichè è vergognoso che alcuni Ministri della Repubblica Italiana e un partito politico intero possano denigrare e sbeffeggiare la bandiera, alto simbolo dello stato, senza conseguenza alcuna.

In merito segnaliamo anche la mostra di cimeli delle guerre d'indipendenza che sarà aperta a breve nel comune di Varese. Tra gli oggetti conservati nel museo cittadino armi, una bandiera italiana d'epoca proveniente dal luinese, documenti e molto altro.