Nei momenti felici di una grande nazione, la gioventù prende gli esempi; nei momenti difficili, li da.

domenica 23 ottobre 2011

Lega, CL e massoneria, i nuovi equilibri politici varesini

(dal Corriere della sera 06-10-2011)
La città che detesta Roma ma vive sempre più di politica

In 46 anni di Prima Repubblica, Varese ha espresso un solo ministro, «mister terremoto» Giuseppe Zamberletti, primo responsabile in Italia della Protezione civile. Nei 17 di Seconda Repubblica, la città ha invece dato alla Nazione 3 ministri, due direttori di rete Rai, un presidente di Alitalia, uno dell’Inps, consiglieri di amministrazione di Enel, Finmeccanica, ancora della Rai più altri enti minori. «Grazie alla Lega Varese è diventata quello che era Avellino ai tempi di De Mita»: il copyright della battuta viene attribuito al deputato del pd Daniele Marantelli ma in ogni caso fotografa in poche parole la mutazione avvenuta nella mappa del potere cittadino nel giro di pochissimi anni: l’asse—al contrario di quanto avvenuto quasi ovunque —, si è spostato dalle imprese alla politica e Varese si è abituata a dipendere assai di più dall’economia di relazioni, quella fatta nei palazzi, che non dalle idee vincenti. Bizzarro, nella città dove è nato lo slogan «Roma ladrona».

Per un’alchimia del destino (ma è poi tutto così casuale?) mentre Varese diventava uno dei punti focali della politica nazionale, le maggiori imprese della zona sfuggivano dimano ai capitani d’industria locali, per decenni i veri padroni della città: oggi la Whirlpool (l’ex Ignis di Giovanni Borghi) è americana, la B-Ticino francese, l’Aermacchi è nella galassia di Finmeccanica, banche locali non ne esistono più. Verrebbe da dire che il potere di Varese non abita a Varese e questo è in larga misura figlio della parabola della Lega Nord: qui il partito di Bossi è nato ma non ha mai raggiunto il record dei consensi in Italia (26% mentre a Bergamo, Brescia o Treviso sfonda il muro del 30) però qui ha prodotto gran parte della sua classe dirigente. È una Lega, quella varesina, molto più di governo che di lotta, avendo come uomini di peso Roberto Maroni o manager come Antonio Marano (Rai), Giuseppe Bonomi (Alitalia e Sea) o lo stesso sindaco Attilio Fontana, un professionista che non ha mai firmato ordinanze tacciabile di xenofobia. E’ insomma l’indotto generato dall’aver raggiunto posizioni chiave grazie alla politica a condizionare la vita della città.

Ma identificare il potere di Varese con la Lega sarebbe riduttivo; numeri alla mano, al Carroccio di governo si contrappone l’altra vera presenza strutturata della città, Comunione e Liberazione. Cl alle ultime regionali è riuscita a far confluire 14.556 preferenze sul suo candidato Raffaele Cattaneo, e anche alle comunali, fin dagli anni 70 i candidati più votati (nella Dc, in Forza Italia, nel Pdl) sono sempre ciellini. Un peso confermato da un fatto: la chiesa intitolata a Massimiliano Kolbe, quartier generale del movimento, periferia della città, ha assunto negli ultimi anni una centralità che contrasta con la basilica di san Vittore o il santuario del Sacro Monte, tradizionali cuori religiosi di Varese. «Che ci sia stato un trasferimento di potere dall’economia alla politica è fuori discussione — commenta Riccardo Broggini, già "pezzo da 90" della Dc, oggi assorbito dalla sua professione di commercialista—anche se di questo la città non sembra trarne grande beneficio: forse perché i protagonisti di questa stagione sembrano più attenti a compiacere i loro referenti superiori».

Ma la mappa del potere di Varese non sarebbe completa senza parlare di un terzo elemento, oltre a Lega e Cl, una sorta di «convitato di pietra» di cui spesso si sussurra: la massoneria. È proprio Broggini a far cadere il velo: «Quando fui candidato sindaco, e persi, durante la campagna elettorale notai una certa resistenza nei miei confronti da parte di alcuni ambienti della città, facenti riferimento alla massoneria. Quali? Ad esempio quelli legati all’università dell’Insubria». L’università è una realtà autonoma a Varese dal 1998, guidata da allora dal rettore Renzo Dionigi; periodicamente l’ambiente accademico si scontra con quello di Cl per la nomina dei primari all’ospedale cittadino, considerato un centro di eccellenza e le diatribe finiscono regolarmente raccontate sui media locali. Ma davvero il Grande Oriente è in grado di condizionare la vita di Varese? Giuseppe Armocida, storico della città e docente proprio all’Insubria (ma anche assessore esterno in una giunta monocolore leghista), getta acqua sul fuoco: «Se si conoscessero gli elenchi degli iscritti alla massoneria varesina si scoprirebbe che il loro peso è relativo. L’università come centro di potere massonico? Mah, se così fosse l’ateneo cittadino avrebbe attratto molto più risorse e non avrebbe la sede malandata in cui oggi deve operare».

venerdì 21 ottobre 2011

Onore e armi in pugno. Come sanno morire i nostri nemici, nessuno (di pietrangelo buttafuoco)


Come sanno morire i nostri nemici, nessuno. Come ha saputo morire il rais, armi in pugno, lo sapevano fare solo i nostri. Come sanno morire i nostri nemici, nessuno. Come ha saputo morire il rais, armi in pugno, lo sapevano fare solo i nostri. Come a Bir el Gobi quando con onore, dignità e coraggio sorridevano alla morte. Fosse pure per fecondare l’Africa.

Sarà tutto tempo perso, dunque, sporcarne gli ultimi istanti, gravarne di dettagli i resoconti e anche quel disumano reportage sul volto fatto strame – tra sangue e calcinacci – non potrà spegnere il crepitare della mitraglia. Perché come ha saputo morire Muammar Gheddafi – così ridicolo, così pacchiano e così a noi ostile – come ha saputo farsi trovare, straziato come un Ettore, solo il più remoto degli eroi dimenticato nell’Ade l’ha saputo fare.
Come i nostri eroi. Come nel nostro Ade. Proprio come seppe morire Saddam Hussein che se ne restò sprezzante sul patibolo. Come neppure la più algida delle principesse di Francia davanti alla ghigliottina. Incravattato di dura corda al collo, l’uomo di Tikrit, degnò qualche ghigno al boia, si prese il tempo di deglutire il gelo della forca per poi gridare la sua preghiera: “Allah ‘u Akbar”. E fu dunque fatto morto. E, subito dopo, impudicamente fotografato.
Come nel peggiore degli Ade. Per quel morire che non conosciamo più perché gli stessi che fino a ieri stavano a fianco del rais, dunque Sarkozy, Cameron, lo stesso Berlusconi, tutto potranno avere dalla vita fuorché un ferro con cui fare fuoco. La nostra unica arma è, purtroppo, il doppio gioco. I nemici di oggi sono i nostri amici di ieri – amico fu Gheddafi, ancor più amico fu Saddam Hussein – e quando li portiamo alla sbarra, facendone degli imputati, dobbiamo scrivere la loro sentenza di morte con l’inchiostro della menzogna perché è impossibile reggere il ghigno dei nemici. Perché – si sa – i nemici che sanno come morire, poi la sanno sempre troppo lunga su tutto il resto del Grande gioco. Ed è un lusso impossibile quello di stare ad ascoltarli in un’udienza.

Come sanno morire i nostri nemici, nessuno. L’unica cruda verità della vita è la guerra e solo i nostri nemici sanno creparci dentro. E’ veramente padre e signore di tutte le cose, il conflitto, ma l’impostura è così forte in noi da essere riusciti a muovere guerra alla Libia dandola per procura, lavandocene le mani, mandando avanti gli altri perché a forza di non sapere morire con le armi in pugno, se c’è da sparare, preferiamo dare in appalto la sparatoria. Giusto come un espurgo pozzi neri da affidare a ditta specializzata.

Come sanno morire i nostri nemici, nessuno. Quando gli eserciti dello zar ebbero ragione del loro più irriducibile nemico, Shamil il Santo – l’imam dei Ceceni, il custode della prima Repubblica islamica nella storia – nel vederselo venire avanti, finalmente sconfitto, non lo legarono a nessun ceppo, a nessuna catena, piuttosto gli fecero gli onori militari per accompagnarlo in un lungo viaggio fino al Palazzo reale dove lo zar, restituendo a Shamil il proprio pugnale, lo accolse quale eroe e lo destinò all’esilio, a Medina, affinché tutta quella guerra, spaventevole, diventasse preghiera e romitaggio.

Come c’erano una volta i nemici, non ce ne saranno più. Ed è per la vergogna di non sapere morire come loro che scacazziamo sui loro cadaveri. Ne facciamo feticcio e se fosse cosa sincera la memoria di ciò che fu, invece che produrre comunicati stampa di trionfo, se solo fossimo in grado di metterci sugli attenti, invece che mettere la morte in mostra, dovremmo concedere loro l’onore delle armi, offrire loro un sudario.

Sempre hanno saputo morire i nemici. E tutti quei corpi, fatti poltiglia dalla macelleria della rappresaglia, nel film della nostra epoca diventano tutti uguali: Benito Mussolini, Che Guevara, Gesù Cristo, Salvatore Giuliano. E con loro, anche i nemici morti ma fatti assenti, tutti uguali: da Osama bin Laden a Rudolph Hess. Fatti fantasmi per dare enfasi al feticcio, come quel Gheddafi armato e disperato che nel suo combattere e urlare, simile a un selvaggio benedetto dal coraggio e dalla rabbiosa generosità, mette a nudo la nostra menzogna.

A ogni pozza di sangue corrisponde l’onta della nostra vergogna e un Pupo che parla a Radio Uno e annunzia “una notizia meravigliosa” e si rallegra di Muammar Gheddafi, morto assassinato, è solo uno che si trova a passare e molla un calcio al morto. Pupo è come quello che sabato scorso, dalle parti di San Giovanni, vede la Madonnina sfasciata appoggiata a un muro e non sapendo che fare le dà un’altra pestata, non si sa mai. Così come il black bloc, anche Pupo, è una comparsa chiamata a raccolta nella montante marea del nostro essere solo canaglie. La signora Lorenza Lei, direttore generale della Rai, dovrebbe cacciarlo lontano dai microfoni della radio di stato uno così ma siccome il nostro vero brodo è la medietà maligna, figurarsi quanto può impressionare l’offesa al morto. Pupo, infatti, è l’eroe perfetto per il peggiore degli Inferi, l’Ade cui destinare quelli che non sanno darsi uno stile nel morire.

martedì 18 ottobre 2011

Fate parlare gli indignati e capirete la vera ragione per cui sono precari. (di Pietrangelo Buttafuoco)


Troppo comodo trasformare in fascisti i “compagni che sbagliano”, gli incappucciati che si prendono i cortei per fare la festa agli indignados. Troppo facile, poi, risolverla con lo sfascismo. In questa vicenda di borghesi stradaioli non c’entra nulla, infatti, il santo manganello. Non c’è il Novecento, non c’è la “Rissa in Galleria” e neanche “Città che sale”. Tutt’al più c’è quell’Ecce Homo di Marco Pannella scaracchiato da una manica di benpensanti giacobini.

In attesa che ci scappi il morto è bene che si sappia che in queste stupide lagne giovanilistiche – cui può benissimo fare il paio la dichiarazione di Mario Draghi, ben lieto di scivolare dentro la demagogia – non c’è una sola scazzottatura, non un solo frammento dell’Avanguardia storica e sempre restando in attesa che ci scappi il morto si può stare sicuri di un fatto: neppure la ribellione delle masse può cominciare da piazza San Giovanni perché se solo ci fosse stata una goccia di olio di ricino si sarebbero sentite le note di “Rusticanella”, la marcia della marcia su Roma.

Troppo comodo, poi, pensare che possano fare epoca. Sarà globale, infatti, la mobilitazione – ci sarà tutta una canea a muoversi – ma tutti questi indignados sono così a corto di concetti, di parole e di raziocinio che è proprio un’esagerazione andargli addosso con gli idranti della forza pubblica. E’ sufficiente farli parlare. Di tutti questi indignados, infatti, quelli interpellati a caldo, dopo gli incidenti di sabato – ma anche a freddo, a bocce ferme – non ce n’è uno che sappia fare la “O” col bicchiere. Il povero David Parenzo, in collegamento dalla piazza ancora rovente per “In Onda” su La7, dai leader raccolti intorno al suo microfono non riusciva a cavargli un costrutto che fosse uno, due parole messe in croce, tre neuroni in grado di sostenere una spiegazione del loro essere indignati. Stessa fatica per Bianca Berlinguer, sempre in collegamento con i giovani indignati al Tg3 “Linea notte”, che non riusciva a farsi dare una frase di senso compiuto da questi avanguardisti, incapaci perfino di dare una risposta a Mario Draghi.

Certo, troppo comodo fare gli stronzi, come stiamo facendo, con dei ragazzi precari che non hanno potuto coltivare la consecutio temporum a causa dei tagli imposti alla scuola pubblica dalla Mariastella Gelmini. Troppo comodo, forse, fare dei paragoni storici perché, insomma, se non hanno la caratura degli Adriano Sofri e dei Tino Vittorio, se non si sono esercitati nella traduzione dall’italiano in latino dei “Pensieri” di Mao nelle aule di Ettore Paratore, se non hanno alle spalle “Gioia e Rivoluzione” degli Area ma sono soltanto pecorelle della farneticazione global, amplificata tanto da Internet quanto dagli incappucciati, indignados assai impazienti, ecco: non solo fa impressione vedere quanto siano ignoranti, ma non sono neppure antagonisti. Altrimenti la guerra alla finanza internazionale la farebbero con i libri di Massimo Fini se non proprio con i “Cantos” di Ezra Pound o con “Cavalcare la Tigre” di Julius Evola. E vederli, come si vedono, con quel puzzolentissimo libretto di Stéphane Hessel, “Indignatevi”, li condanna definitivamente alla pochezza del gregge, tutto un belare in sottovuoto marketing. E sono ignoranti a un livello tale che se lo meritano di essere precari, altrimenti sarebbero come i loro coetanei d’India, di Cina e di Corea che spadroneggiano nella tecnica e nelle invenzioni e non certo in Scienze delle comunicazione.

E non producono estetica, infatti, questi indignados – come possono fare i loro coetanei nelle banlieue di Parigi con tanto di film come “L’odio” di Mathieu Kassovitz, con Vincent Cassel – e non avranno mai l’avventura di fare la rivolta, come accade in Egitto dove però, signori miei, nei pressi del Canale arrivano le motovedette della Repubblica islamica dell’Iran, altro che i contestatori della Val di Susa.

Non sono antagonisti, infine, perché è troppo comodo fare la rivoluzione con la corda dimenticata nei magazzini del signor Lenin. E se non si riesce a farsela vendere, la corda, dagli stessi capitalisti destinati a farsi impiccare ma tanto più ad arricchirsi, non si può restare a farsi aspergere con queste polluzioni dei giovanotti borghesi in attesa che la rivoluzione trovi una propria lingua perché il linguaggio, intanto, ha retrocesso tutti i bennati d’occidente nel balbettio mondialista e i peccati contro lo spirito del male, si sa, non si perdonano in questo mondo.

diPietrangelo Buttafuoco, da "il Foglio"

domenica 16 ottobre 2011

I nostri 'indignados' complici morali degli scontri.



All'indomani della giornata in cui Roma è stata devastata dai soliti noti, è d'obbligo fare delle riflessioni su quanto accaduto, delle riflessioni oneste e che facciano i dovuti distinguo.
Anche noi, da Destra, siamo contro la finanza speculativa, il sistema bancario degenerato e i poteri forti della finanza mondiale. Il vero problema in questo momento non sono i governi, ma sono i vari Moody's, Fitch, Standard & Poor's, i fondi finanziari speculativi, l'Unione Europea incapace di reagire unitariamente, ecc..
I governi tagliano la spesa, spesso non centrano però i dovuti sprechi (e in questo faccio autocritica al governo italiano), e non riescono ad imporre la supremazia della politica nei confronti dell'economia, anche se, ultimamente in Italia sembra che qualcosa si stia muovendo, come dimostrano le recenti declassazioni del nostro debito cui sono seguiti rialzi della Borsa di Milano e dei titoli delle nostre aziende.

Ma la grande manifestazione del 15 Ottobre che si è svolta a Roma, al di là del capitolo incidenti e scontri con la Polizia, avrebbe centrato l'obiettivo della protesta degli "indignados" del resto del mondo? La risposta è semplice, no.

Mentre in tutto il mondo si protestava contro la finanza speculativa e il turbocapitalismo che affama le Nazioni e i Popoli, in Italia gli slogan erano sempre quelli, vecchi, consumati, contro il governo e contro Berlusconi. Lo dimostrano le bandiere del movimento Antifascista, le bandiere No Tav, i movimentisti terremotati dell'Aquila, i Cobas, i collettivi studenteschi, e le numerosissime bandiere con la falce e martello, bandiere della Palestina (!!!!!!), ecc... Ma cosa centrano tutte queste sigle con la crisi finanziaria?? Come diversi commentatori hanno avuto modo di intuire, come Pansa o De Angelis sui loro rispettivi giornali, questi sedicenti "indignados" hanno sbagliato a mirare. Dietro gli striscioni contro la crisi si celano sempre le stesse faccie, ovvero quelle di coloro che scendono in piazza con cadenza quasi mensile contro la Gelmini, contro la Legge "Bavaglio", contro Berlusconi in generale, senza aver capito che se Berlusconi cade al governo ci andranno proprio coloro che dovrebberop realmente contestare, ovvero i succubi dei poteri forti. Non ci scordiamo che il caro vecchio Prodi, uomo di sinistra, aveva lavorato per la Goldman Sachs, una delle principali banche americane responsabili di questa crisi. Pensate forse che i suoi eredi radical chic sinostrorsi non sarebbero anche loro schiavi dei vari Draghi, Passera, ecc? Infatti, a supportare quanto dico ci sono le dichiarazioni di questo giorni dei vari Draghi, Della Valle, Montezemolo, tutti critici sull'operato del governo Berlusconi, i quali "capiscono questi ragazzi che protestano perchè hanno ragione". Con che coraggio Mario Draghi, uomo fortissimo della superfinanza italiana e mondiale dice queste cose?!?!?!? Se gli indignati fossero veramente tali, sarebbero andati a contestarlo sotto la sua abitazione. Ma evidentemente qualcosa non quadra.

A riprova di quanto penso ci sono, giusto per venire ai fatti romani, gli atteggiamenti dei manifestanti "pacifici" nei confronti dei black block. Se è vero che qualcuno di loro ha messo alle strette i delinquenti vestiti con caschi e felpe nere urlandogli contro e forse persino consegnadoli alla polizia, questi sono stati casi isolati. Basta aver assistito alla diretta su Corriere.it della manifestazioni per capire che molti, troppi manifestanti pacifici giustificavano e coprivano i teppisti. Una scena in particolare mi ha colpito: mentre polizia e carabinieri si organizzavano e si dirigevano verso Piazza San Giovanni, sui marciapiedi vi erano gli ultimi manifestanti che si erano attardati lungo la strada del corteo, i quali urlavano "merde", "servi dello stato", "vergogna" all'indirizzo delle forze dell'ordine. Per non parlare delle innumerevoli interviste in cui alcuni manifestanti dicevano che "è colpa degli automobilisti, non dovevano lasciare la macchina lì", oppure "in mezzo a tutta questa gente è comprensibile che ci siano persone che reagiscono così". Questa complicità morale di tanti 'indignados' dovrebbe far riflettere sulla reale entità di questi cortei che troppo spesso finiscono per mettere a ferro e fuoco le città, come succede spesso a Milano o come era già successo a Roma al corteo degli studenti il dicembre scorso.

Forse il nostro governo dovrebbe avere meno timore e usare più pugno di ferro, fregandosene delle critiche. Negli Usa così come in Inghilterra sono state arrestate molte persone perchè avevano provato a sfilare in zone off-limits. In Italia invece, per paura di critiche e sommosse, si consente agli anarchici di bruciare le camionette dei carabinieri. I nostri poliziotti sono mandati allo sbaraglio contro questi delinquenti organizzati, e basta vedere i video di ieri per notare benissimo come la mancanza di una strategia per contenere i black block abbia portato alla distruzione della camionetta dei carabinieri e ad altri rischi per il personale a terra. Che fine faranno infine i pochi fermati e arrestati, appena 22 in tutto? La magistratura li rimetterà fuori subito, come ha già fatto?

Giusto per avere alcuni dati:
una chiesa violata con distruzione di crocefisso e statua della madonna
decina di auto e motorini bruciati
due case date alle fiamme
una sede del ministero della difesa bruciata
20metri cubi di sanpietrini divelti
130 feriti tra forze dell'ordine e manifestanti
decine di negozi distrutti e saccheggiati, tra cui un alimentari
un tricolore strappato

E' ora di svegliarsi cari ragazzi di Destra e caro Governo. Scendiamo noi in piazza centrando l'obiettivo della crisi, e impegnamoci in prima persona per uscire da questa situazione. Bruciare auto, magari di poveracci che non arrivano a fine mese, non serva a nulla.

mercoledì 5 ottobre 2011

RICORDANDO NANNI E GLI ALTRI MORTI DI STATO..

31 anni fa l'addio all'attivista di Tp. Oggi in carcere si muore ancora, ma ora la società non è più sorda



"Fascista suicida in carcere. Era implicato nell'omicidio Serpico". Il trafiletto uscito il 6 ottobre del 1980 sul Corriere della Sera non dice nulla ma, in qualche modo, dice tutto. È una notiziola, una "breve", che già di per sé spiega: il fatto non è importante. Secondo elemento: il ragazzo deceduto non è una persona, è "un fascista". Terzo punto: il tizio è morto suicida. Non un accento di dubbio o perplessità. Infine: il fascista era comunque "implicato nell'omicidio Serpico". Insomma, non uno stinco di santo. Così, trentuno anni fa, il principale quotidiano italiano liquidava la morte di Nazareno De Angelis, detto Nanni, uscito cadavere da una cella in cui era stato sbattuto con l'accusa (infondata) di aver ucciso un agente. Aveva 22 anni.

Trentuno anni dopo
Dopo tanti anni da quel triste giorno molte cose sono cambiate. Alcune in meglio, altre in peggio. Altre ancora sono rimaste tali e quali. Il sistema carcerario è probabilmente peggiorato. Le leggi speciali degli anni di piombo non ci sono più, gli abusi delle forze dell'ordine sì. L'antifascismo, nei media, persiste ma, bontà loro, ormai solo in pochissimi sono davvero convinti che uccidere un fascista non sia reato. I casi recenti che hanno visto morire Gabriele Sandri, Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi hanno trovato una vasta eco sui media, suscitando sdegno e preoccupazione in strati trasversali della società civile. Gabriele, l'ultras ammazzato da un poliziotto pistolero all'autogrill. Stefano, il piccolo pusher di periferia martirizzato fra celle, tribunali e ospedali. Federico, il giovane problematico che incontrò una pattuglia della polizia e ne uscì massacrato. Tre storie diverse, tre ragazzi diversi, con l'unico filo conduttore di aver cessato di vivere dopo aver avuto a che fare con lo Stato e i suoi servitori.

Lo sdegno in libreria
Gabriele, Stefano e Federico, ovviamente, non sono le prime vittime degli abusi di Stato. Sarebbe bello fossero le ultime, in ogni caso. Ma sappiamo bene che la previsione è sin troppo ottimistica. Sta di fatto che rispetto a qualche anno fa anche semplicemente l'eco mediatica di fatti come questi è aumentata esponenzialmente. Facendo un giro in libreria, l'impressione è che sul tema dei cosiddetti "omicidi di Stato" la sensibilità stia cambiando. Facciamo una panoramica: negli ultimi tempi sono usciti Quando lo Stato uccide, di Tommaso Della Longa e Alessia Lai (Castelvecchi), 11 novembre 2007. L'uccisione di Gabriele Sandri - Una giornata buia della Repubblica, di Maurizio Martucci (Sovera), Vorrei dirti che non eri solo. Storia di Stefano mio fratello, di Ilaria Cucchi e Giovanni Bianconi (Rizzoli), Quando hanno aperto la cella. Stefano Cucchi e gli altri, di Luigi Manconi e Valentina Calderone (Il Saggiatore), È stato morto un ragazzo. Federico Aldrovandi che una notte incontrò la polizia, di Filippo Vendemmiati (Promo Music), Aldro, di Francesca Boari (Corbo Editore). Solo una piccola selezione, fra i tanti saggi che affrontano l'argomento. Per non parlare dei saggi più articolati che affrontano la delicata questione della crisi del sistema carcerario. È il segnale che qualcosa si sta muovendo.

Una volta, invece...
Come si ragionava, invece, qualche decennio fa? L'opinione pubblica becera e qualunquista non si curava (e in fondo non si cura) di ciò che accade al di là del ristretto orizzonte perbenista cui essa appartiene. Ultras, spacciatori, immigrati, ma anche attivisti politici o persone impegnate nel volontariato sono, per motivi diversi, al di fuori di questa sfera d'attenzione. Ciò che accade a quei tizi non fa testo, forse è anche giusto. Comunque meglio a loro che a me, pensa il piccolo borghese. Ma qui stiamo parlando del ventre molle della Nazione, fatto di meschinità gelatinosa ed egoismo sociale. Quello che è più interessante notare è invece il cedimento verso il becerismo da parte dell'opinione pubblica illuminata, progressista, che dagli anni '70 a oggi continua a dar lezioni. Quando ad Acca Larentia Stefano Recchioni (diciannove anni) cadeva sotto i colpi del capitano Sivori, ad esempio, Il Messaggero si affrettava a spiegare: «Stefano Recchioni, seppur non iscritto formalmente al Msi, era un elemento piuttosto attivo nella piazza, definito tra i più "turbolenti". Era stato arrestato dal terzo distretto di polizia nell'agosto del 1976 [...]. Il processo fu celebrato l'anno scorso e Recchioni ne uscì assolto per insufficienza di prove» (9 gennaio 1978). Era un turbolento, se lo meritava, par di capire. E quando Alberto Giaquinto veniva colpito alle spalle dal poliziotto Alessio Speranza, Lotta Continua poteva scrivere (inventando tutto di sana pianta): «[...] Uno dei fascisti si è girato impugnando una pistola di grosso calibro, ma non ha fatto in tempo a premere il grilletto che uno degli agenti ha fatto fuoco, colpendolo alla testa. Poco dopo il giovane è stato identificato in Alberto Giaquinto, 22 anni [in realtà ne ha meno di 18 - ndr]. La sua appartenenza alle squadracce fasciste è stata rivelata alla stampa dalla sorella» (11 gennaio 1979). In "inchieste successive", il foglio comunista parlerà di rampolli viziati e violenti, di rapine e spaccio d'eroina. E si trattava di un ragazzino ucciso dalla "odiata" polizia, nel corso di una manifestazione contro una sede della "odiata" Dc. Ma evidentemente, all'epoca, Sofri e compagni avevano un odio più forte. Che poteva giustificare ogni cosa. Persino l'abuso poliziesco e reazionario.

Adriano Scianca da "il secolo d'italia"

sabato 1 ottobre 2011

SOLIDARIETA' AL POPOLO KAREN CHE LOTTA CONTRO CINA E BIRMANIA!

Il "nuovo" governo birmano sorride alla comunità internazionale promettendo aperture e facendo incontrare con gli inviati europei e americani i suoi uomini più presentabili, di solito anziani politici impotenti, dai modi gentili e dalle rassicuranti strette di mano. Intanto, mentre Aung San Suu Kyi per la gioia dei mezzi di comunicazione del regime assiste alle partite di calcio internazionali nello stadio di Rangoon, decine di battaglioni del Tatmadaw, l'esercito del Myanmar, sferrano una massiccia offensiva contro le minoranze dell'Est del Paese, provocando la fuga di decine di migliaia di civili e la distruzione di interi villaggi. Da cinque giorni le truppe birmane stanno martellando le posizioni del Kachin Independence Army con artiglieria pesante (mortai da 81 e 120mm, cannoni da 105mm) lungo la direttrice del nuovo gasdotto che nelle intenzioni di Cina e Myanmar dovrà portare il gas birmano fino alla provincia dello Yunnan.
Una operazione "per commissione" si potrebbe dire, se non fosse che tra i maggiori beneficiari di questa vera e propria pulizia etnica non ci sono soltanto le compagnie energetiche cinesi ma anche i generali birmani, sempre molto attenti alle sorti del loro portafogli personale. La prossima area di operazioni sarà, invece, molto probabilmente alcuni chilometri più a Nord, a ridosso dei cantieri cinesi della Diga di Myitsone, ciclopica struttura che prevede l'inondazione di una superficie di territorio più ampia di Singapore e la distruzione di decine di villaggi Kachin.


Il gioco delle parti continua, e tra gli attori principali c'è l'Unione europea, che continua a ignorare quello che accade veramente in Birmania. Continua a ignorare che soltanto nell'ultimo mese di guerra sono stati denunciati 37 stupri commessi dai soldati birmani ai danni di donne (e bambine) Karen, Kachin e Shan. E si parla soltanto dei casi documentati e verificati. L'Unione europea, allineata sulla posizione della Germania e della influente organizzazione non governativa "Friedrich Ebert", una fondazione legata al partito socialdemocratico tedesco e con sorprendenti canali di comunicazione con il regime birmano, continua a ignorare che per le minoranze etniche non è previsto alcun futuro nel disegno dei generali di Rangoon. Quello che interessa veramente, quello che fa gongolare i banchieri è l'ampia garanzia di business assicurata dal governo birmano, che ha intrapreso una decisa manovra di privatizzazioni nazionali e di aperture al mercato internazionale.
Per questo fa sorridere amaramente la posizione "pacifista" della Fondazione Ebert: gli aderenti all'organizzazione sostengono che non si debba dare alcun supporto ai movimenti armati delle minoranze etniche (le quali, per inciso, rappresentano almeno il 40 per cento della popolazione birmana), in quanto questo non farebbe altro che prolungare la guerra. Tra gli obiettivi ufficialmente dichiarati della Fondazione c'è anche quello del perseguimento di una "globalizzazione solidale", posizione in perfetta sintonia con la filosofia della Chevron e della Total, le multinazionali che da lungo tempo sfruttano le risorse energetiche dei territori Karen e Shan facendo trasferire in "villaggi modello" i civili che si rifiutano di lasciare la loro terra. Un'iniziativa che si traduce in una sorta di deportazione, presentata sotto vesti, appunto, "solidali".

I Karen stanno respingendo gli attacchi birmani lungo un'altra importante "linea commerciale", quella della grande strada in costruzione tra la città thailandese di Kanchanaburi e il porto birmano di Tavoy. L'Unione Nazionale Karen, per bocca del suo segretario nazionale, la signora Zipphora Sein, aveva annunciato qualche giorno fa che la guerriglia avrebbe impedito il proseguimento dei lavori a meno che non fossero state rispettate alcune condizioni fondamentali per la tutela del territorio e per il rispetto dei diritti degli abitanti del distretto attraversato dai cantieri. I camion delle compagnie coinvolte nella costruzione erano stati bloccati dai guerriglieri Karen. Tra questi, diversi automezzi carichi di materiale cinese destinato alle grandi opere nell'area portuale birmana. Un'area in cui si sentirà ben presto parlare anche il tedesco: nel giugno di quest'anno, infatti, il direttore della fabbrica di armi e munizioni "Fritz Werner", Joerg Gabelmann, ha incontrato alti ufficiali della giunta birmana per stringere un «accordo di reciproca collaborazione su porti e aeroporti».

Si tratta di una situazione da cui emergono almeno due dati o, meglio, due conferme. La prima è che le elezioni celebrate in Birmania quasi un anno fa non hanno cambiato né metodi, né intenzioni, né fisionomia del governo. Benché il mondo occidentale le abbia salutate come un passo positivo verso la democrazia, il Paese è ancora solidamente nelle mani di una giunta militare ben lontana da quell'aura di accettabilità che in molti, ora, vorrebbero conferirle. Il secondo dato è che la guerra che questa giunta porta contro le minoranze etniche - e che miete vittime tra contadini, allevatori, monaci, donne e bambini che chiedono solo di restare a vivere sulla terra che abitano da sempre - è molto meno lontana di quanto appaia, è tutt'altro che una questione interna. Si consuma lungo le vie dei grandi affari internazionali che passano, sì, per la giungla, i villaggi e le province del Myanmar, ma che puntano direttamente a Pechino, Shangai, Bangkok, Tokio, Parigi, Berlino, Mosca, Londra, Tel Aviv, alla California, a Singapore e a tutti i luoghi in cui quegli affari vengono concepiti in collaborazione con la giunta militare e con la distrazione delle democrazie occidentali.

Franco Nerozzi - Comunità solidarista Popoli Onlus