Nei momenti felici di una grande nazione, la gioventù prende gli esempi; nei momenti difficili, li da.

giovedì 7 luglio 2011

EROI ITALIANI: OPERAI E SOLDATI (di Marcello De Angelis)

Le nazioni si abbeverano al sangue dei martiri. Non esiste una retorica patriottica pacifista. Ciò che cementa i popoli, ciò che rende inaccettabili gli egoismi, è la memoria di quanti hanno sacrificato la vita perché altri potessero vivere. O vivere meglio.
Una nazione è il prodotto del sacrificio di molte generazioni e di molti uomini e donne. Molti sono morti per segnare o difendere un confine entro il quale essere padroni del proprio destino. Molti sono morti domando la natura. Molti sono morti costruendo case che proteggessero altri, ponti che permettessero loro di mettersi al sicuro, difese dalle invasioni o dai cataclismi. Molti muoiono per poter garantire un tetto ai propri familiari, il nutrimento, l’educazione.
Molti escono di casa baciando i propri figli e dicendogli: “papà deve andare al lavoro”. Alcuni non tornano più. Ogni anno più di mille. Come in una guerra. Altri indossano una divisa, anche loro salutano le mogli e i figli: “Papà va lontano, a lavorare”. Nessuno dice ai figli “papà va a combattere”, né quando va in Afghanistan, né quando va al cantiere. Eppure di questo si tratta. Lontano dall’ipocrisia e dai proclami, dalle strumentalizzazioni dei manifesti e dei comizi, si parte con la consapevolezza di andare a combattere. Forse si torna, forse no. Eppure si va. Solo per i soldi? Non ci crede nessuno. Anche chi va a lavorare spinto dalla miseria, non ci va solo per i soldi. Ci va perché l’uomo è fatto per andare via e tornare con il necessario per la propria famiglia. E oggi sono sempre più numerose le donne che si assumono questa responsabilità e questo rischio.
Si può evitare che qualcuno muoia? Si può garantire che tutti i soldati tornino indenni? Che nessun lavoratore rischi di farsi male? Forse non ci riusciremo mai. Anche i soldati che restano a casa a volte muoiono. Ma non hanno scelto la divisa perché amavano restare chiusi in casa.
Lavoratori, in divisa o in tuta:non si può salvarli tutti, ma ricordarli si deve. Perché tutti apprezzino il loro sacrificio e perché il loro esempio possa salvarne altri.

di Marcello De Angelis dal Secolo d'Italia

venerdì 1 luglio 2011

Il ricordo di Pietro Taricone, che odiava i salotti e amava l'avventura.



Pietro Taricone ha avuto “una fine da guerriero, una fine dove fatalmente si mescolano l’uomo con il personaggio, la finzione con la realtà, il coraggio con la malasorte”. Icona della prima edizione del Grande Fratello, dopo l’ubriacatura di notorietà, l’attore campano aveva demolito colpo su colpo ogni stereotipo sui protagonisti dei reality.
Come? Scegliendo la sobrietà, lo studio della recitazione, l’impegno nel sociale, il paracadutismo con Casapound (aiutava i meno abbienti ad avvicinarsi alla disciplina finanziando un prestito d’onore da restituire in dieci rate). Ai ritrovi di star e starlette nelle discoteche preferiva la vita ritirata con l’amata Kasia Smutniak. In campagna, lontano dai riflettori, per praticare i valori più sani su cui si fonda una comunità familiare. Un anno fa “O’ Guerriero” ha trovato la morte nel tragico atterraggio a Terni dopo un lancio da 1500 metri.

Andava a scuola nello stesso liceo di Roberto Saviano. L’autore di Gomorra dopo la sua scomparsa, scrisse una lettera a Il Mattino: “E lui sulla soglia del circo mediatico seppe prendersi il suo tempo, scegliere il suo percorso, approfittare dell’opportunità avuta per studiare e migliorarsi. Non farsi ferire dalla bile o dalle accuse per il successo che in certe parti d’Italia è la colpa peggiore. Amava volare, “perché il cielo non tradisce” come ogni paracadutista sa. A tradirlo è stato l’atterraggio, è stata la terra”. Con Saviano, Taricone condivideva la passione culturale per gli “irregolari”: si erano formati su autori scomunicati dalla sinistra, da Julius Evola a Ernst Jünger. “Ero di destra da ragazzo - raccontò Taricone - come lo si è allora, da idealisti, per aver letto Hegel e Nietzsche alla dannunziana. (...) Al liceo mi affascinava il pensiero della destra mitologica, l’incarnazione della forza, Fichte, l’architettura ideologica del fascismo. E mi chiedevo sempre: chi è cchiù forte, Kant o Hegel? Gentile o Croce?”.

Non era un settario, aveva sullo zaino la fiamma tricolore e il volto di Che Guevara, come molti ragazzi del Fronte della Gioventù. Di tutte le “meteore” passate dai reality, è stato l’unico a conservare un nome ed un cognome. Era insofferente ai “ritmi” del guru Maurizio Costanzo, stretto nel ruolo di “bullo della Casa”. E allora tagliò la corda e decise con umiltà di ritagliarsi uno spazio per “merito”, non per grazia ricevuta dalla sovraesposizione mediatica legata al format Endemol. Insomma si giocò fino in fondo la partita nel mondo dello spettacolo, senza dimenticare l’amore per la compagna e la figlia: “Al mattino mi sveglio e bacio Sophie e Kasia”. Aveva grinta e personalità per imporsi e nella sua troppo breve stagione terrena comprese che non era utile piegarsi ai conformismi: “Vado in televisione solo se ho qualcosa da dire. In tv vogliono che io racconti le mie emozioni, le mie passioni... Ma stiamo pazziando? L’atteggiamento bullesco serve proprio a questo: a cautelare la propria intelligenza. Io lo chiamo pudore”. Ecco, ci mancherà il suo pudore.


di Michele De Feudis da robertoalfattiappetiti.blogspot.com