Nei momenti felici di una grande nazione, la gioventù prende gli esempi; nei momenti difficili, li da.

giovedì 7 aprile 2011

MAIMERI, IL MADE IN ITALY CHE RESISTE ALLA CINA.


«Da mio nonno, che in nome dell’arte seppe rinunciare ai privilegi, ho imparato una lezione importante: il profitto non è tutto, prima vengono la passione, l’onestà intellettuale e la cultura del lavoro».
Le parole sono di Gianni Maimeri, 52 anni, nipote omonimo di un maestro milanese della pittura degli anni Venti, nonchè fondatore dell’azienda di colori leader per le belle arti di cui Gianni Jr è oggi amministratore delegato. Gli uffici dell’industria di Mediglia sembrano stanze museali, con le pareti tappezzate di dipinti del nonno, lettere autografe di critici e intellettuali dell’epoca, e opere di artisti contemporanei che appartengono alla collezione di famiglia e della Fondazione intitolata all’artistai.
Nei capannoni della produzione, si apre l’immagine esotica di enormi fusti ricolmi dei pigmenti che riempiranno i tubetti esportati in tutto il mondo: blu oltremare, giallo di cadmio, rosso magenta, terra di Siena bruciata e via, in un infinito arcobaleno. Maimeri osserva le vasche colorate e mi spiega il suo concetto di etica: «Sa quanto costa un tubetto di colore fabbricato in Cina? Esattamente quanto uno dei nostri, ma vuoto. È per questo che tutti i nostri concorrenti internazionali delocalizzano la produzione in Estremo Oriente. Avremmo potuto aprire anche noi da quelle parti e invece con la stessa cifra abbiamo voluto installare qui il più moderno sistema di depurazione delle acque, anche se i nostri non sono rifiuti tossici».

Poi mostra una recente lettera del presidente Napolitano che lo ringrazia e si complimenta per l’agenda 2011 intitolata al primo articolo della Costituzione. All’interno, a corredo dei mesi e dei giorni, il fotografo Massimo Prizzon ha ritratto tutti i cento dipendenti intenti nelle loro attività quotidiane. Immagini poetiche in bianco e nero che «restituiscono il valore morale e pratico del produrre». L’unità d’Italia almeno per questa volta non c’entra.
«Mio padre Leone ed io abbiamo voluto tener fede a un’idea di legame indissolubile tra arte e industria. Il nonno nel 1923 mise in piedi la bottega per inventare i colori che gli permettessero di dipingere meglio. Questa esigenza fa parte del nostro Dna e ci ha portato a creare una fondazione che si occupa di promuovere, oltre che la sua opera, quella dei giovani artisti delle accademie di cui ascoltiamo i bisogni di innovazione. In gergo scientifico si chiama ricerca di base».

Sposato e padre di quattro figli, sogna una Milano che metta al primo posto il binomio lavoro e cultura. L’attività della fondazione, che istituisce anche mostre e premi per l’arte giovane, lo portano a contatto con i bisogni delle nuove generazioni. «Mi piacerebbe che, così come avviene in altre città europee, ci fosse una programmazione più lungimirante sul piano della valorizzazione delle eccellenze e dei nuovi talenti, che invece sono spesso gestiti da mano privata».
Poi c’è la qualità della vita. «Come cittadino e come padre mi attendevo di più anche dall’occasione Expo, e invece per quanto riguarda verde e inquinamento mi sembra che manchi ancora una strategia. Sul problema traffico, invece, sarebbe forse stato meglio investire nei parcheggi in periferia anzichè aprire cantieri in centro che poi si rivelano speculazioni». Per quanto riguarda il lavoro, rivendica la forza del made in Italy. «Chi sventola questo marchio spesso in realtà riserva solo una piccola parte della produzione al territorio nazionale. Il primo articolo della Costituzione non lo abbiamo citato invano perchè, malgrado la crisi, restiamo in Lombardia e continuiamo a incrementare le assunzioni. Oggi produciamo cinque milioni di pezzi all’anno di cui il 60 per cento del volume in esportazione. Ma alla qualità e al valore del lavoro non abbiamo mai rinunciato indipendentemente dagli obblighi di legge: quando avevamo solo 28 dipendenti abbiamo creato la mensa aziendale e, se oggi le norme Ue prevedono un margine di tolleranza del cinque per cento sul contenuto dei tubetti di colore, noi preferiamo sbagliare per eccesso».

L’eredità morale e artistica di nonno Maimeri pare un elemento inscindibile anche dalle strategie aziendali. Lo scorso anno, durante una serie di accordi commerciali con la Russia, la fondazione è stata invitata per due antologiche (attualmente in corso) all’Accademia di Belle Arti di San Pietroburgo e alla Russian Art Academy di Mosca. Quantomeno curioso che un Paese straniero decida di celebrare un artista storico milanese che qui è quasi sconosciuto al grande pubblico. Ma non è escluso che presto anche le istituzioni meneghine riscoprano un grande pittore che certo scontò il suo essere controcorrente rispetto alle mode futuriste e alle convenzioni del regime. Come quando rifiutò con garbo l’invito di Margherita Sarfatti a dirigere l’Accademia Italiana delle Arti. O come quando si oppose fermamente al podestà sul progetto di copertura dei Navigli perchè offendeva l’identità del paesaggio milanese. Quando vide che la partita era ormai persa dipinse un ciclo di opere intitolato la «serie dei Navigli», a futura memoria. La serie fu acquistata dalle Distillerie Ramazzotti.
«Il nonno non volle mai prendere la tessera del partito e per questa ragione venne escluso da Biennali e Quadriennali incluse. Preferì essere libero e dipingere ciò che voleva». Cosa che non gli impedì nel ’29 di vincere la medaglia d’oro e il premio delle Comunicazioni alla Terza Esposizione del Paesaggio tenutasi a Bologna. Nè, naturalmente, di portare avanti la piccola azienda di colori che il figlio Leone avrebbe poi fatto decollare.

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