Nei momenti felici di una grande nazione, la gioventù prende gli esempi; nei momenti difficili, li da.

domenica 30 gennaio 2011

BLOODY SUNDAY, IRLANDA LIBERA!




30 Gennaio 1972. 13 persone muoiono sotto i colpi sparati dai soldati inglesi a Derry, città dell'Irlanda del Nord, durante una protesta per i diritti civili.

La storia dell'Irlanda del nord è travagliata e affonda le sue radici nel dominio semicoloniale dell'Irlanda da parte della corona inglese. Ma gli irlandesi, popolo fiero, si emanciparono all'inizio degli anni 20, costituendosi nazione indipendente e sovrana. Le contee che formavano l'isola si unirono sotto le insegne nazionali del tricolore bianco verde e arancione, ma 4 contee rimasero sotto occupazione inglese.

L'attuale Irlanda del Nord, con le città di Derry e Belfast, è ancora territorio britannico e negli anni 60 e 70 la lotta politica per riunire alla madrepatria queste zone fu cruenta e provocoò diversi morti. SOldati britannici da un lato, protestanti, e membri dell'IRA (irish repubblican army), irlandesi e cattolici dall'altro. L'idea di non volere più "colonie" in Europa e l'idea dell'autodeterminazione dei popoli, uniti a sentimenti repubblicani, animavano i cattolici dell'Irlanda del Nord e li spingevano a scendere in strada per chiedere a gran voce un'IRLANDA LIBERA E UNITA.

Quel 30 Gennaio, 26 manifestanti disarmati furono colpiti in strada, durante una manifestazione non autorizzata, dai paracadutisti inglesi, nel tentativo di disperdere la folla. 13 persone morirono, tra loro molti ragazzi di appena diciassette anni. QUel giorno, passato alla memoria come BLOODY SUNDAY, la domenica di sangue, fu uno shock per tutta gli irlandesi e suscitò nella popolazione una forte ondata emotiva che si tradusse in un boom di richieste di reclutamenti tra le fila dell'IRA, che conduceva una lotta armata contro gli inglesi.

Nonostante all'Irlanda del Nord sia stata concessa autonomia, le tensioni permangono ancora oggi tra irlandesi cattolici e figli di immigrati inglesi protestanti nelle contee del nord-irlanda. Nel ricordo dei 13 martiri dell'indipendenza irlandese, e nel nome dei nobili ideali che animarono quella lotta, oggi i giovani identitari italiani ricordano il Bloody Sunday, al grido di Tiocfaidh ár lá! (verrà il nostro giorno in gaelico)

giovedì 27 gennaio 2011

Una via per ricordare il prof Furia a Varese

L'idea di una via o una piazza per ricordare il grande professore e studioso varesino d'adozione Salvatore Furia è in giro da un po' di tempo nell'amministrazione della nostra città, ma ancora non se ne è fatto nulla. Oggi Stefano Clerici, consigliere comunale e presidente provinciale della Giovane Italia Varese ha lanciato la proposta: intitoliamo la via che porta al centro astronomico di Campo Dei Fiori allo scomparso professore; d'altronde è lui che ha fondato il centro che ha reso celebre Varese e il suo monte, ed è quindi la soluzione più giusta.

Furia, già presidente del WWF lombardo, dell'associazione amici del sacro monte, del "cenacolo dei poeti dialettali varesini e varesotti",fondò la cittadella della scienza del Campo dei Fiori nel 1956, creò il Parco Naturale del Campo dei Fiori e fu uno dei primi a volere la restaurazione delle funicolari di sacro monte.

Clerici porterà al prossimo consiglio comunale la proposta di intitolazione della via, sperando che sia accolta e attuata in realizzata in fretta, con approvazione bipartisan senza polemiche.

lunedì 24 gennaio 2011

Il Vescovo contro i nostri soldati morti. VERGOGNA!

L’alpino Matteo Miotto ri posa in pace, la sua memoria ancora no. Gli sopravvive un bel dilemma all’italiana,un dilemma non nuovo, nè tanto meno così avvincente: è un eroe o non è un eroe?

Singolarmente, questa volta è lo stesso vescovo di Miotto a risollevare la questione. Il sol dato era di Thiene, la diocesi è quella di Padova. E proprio la guida spirituale di questa dio cesi ha suscitato clamore con la decisione di non celebrare i funerali privati del caduto, li mitandosi a inviare una lette ra di cordoglio. «La diocesi era rappresentata», ha spiega to monsignor Antonio Mat tiazzo ai giornalisti locali. E forse poteva fermarsi lì. Inve ce ha tenuto ad un’aggiunta molto chiara: «Certo sono di spiaciuto che il giovane sia morto. Ma andiamoci piano con l’esaltazione retorica. Non facciamone degli eroi. Quelle non sono missioni di pace. Vanno lì con le armi, dunque il significato è un altro, non dobbiamo dimenti­carlo...».

Sua eccellenza, indubbiamen te, solleva polvere con una presa di posizione piuttosto ideologica. Ai cristiani qua lunque, che si mettono in co da dietro a una bara, importa poco che dentro ci sia un eroe. Purtroppo c’è un ragazzo,che comunque ha lasciato la vita in circostanze molto partico lari, servendo una bandiera e una Patria, regalando scritti toccanti nel segno di un’idea. Sembrerebbe naturale che da vanti al corteo funebre, nel l’ultimo giorno, ci sia il suo ve scovo. In questo caso, il suo ve scovo non ritiene degna la cir costanza. Prende le distanze. Certo monsignor Mattiazzo ha mille ragioni quando vuo le sottrarsi al coro retorico. Troppo spesso l’enfasi patriot tica e militaresca sovrasta im pietosamente il lutto vero. Normale e forse pure dovero so che il religioso si neghi al rito profano dei superlativi epici. Ma nella sua posizione avrebbe un’opportunità uni ca: salire sul pulpito per indi rizzare le esequie in prima per sona, celebrandole secondo la propria convinzione di fe de, nel modo più giusto.

Invece il soldato Miotto trova un vescovo che per evitare la retorica decide di scantonare. Con tutto il rispetto, difficile comprendere. Impossibile condividere. Ma c’è di più. monsignor Mattiazzo espri me pure tutto il proprio disaccordo sulla natura della spedi zione italiana, schierandosi apertamente: non andiamo a portare la pace, andiamo a fare la guerra.

Torna a riaffiorare l’annosa e irrisolta questione. Il vescovo l’affronta nel modo più linea re e intransigente: dove ci so no armi, c’è guerra.Una Chie sa evangelica e spirituale in senso stretto non può accetta re in nessun caso il ricorso alla forza. Questa la nobilissima e rispettabilissima posizione ideale. Ma le cose, nella prati ca, sono maledettamente più complicate. Ci sono momenti e circostanze che richiedono la forza per difendere gli indifesi. La stessa Chiesa, anni fa, fu d’accordo con l’intervento militare per fermare gli orrori in Kosovo. E certo non avreb be niente da ridire se in diverse parti del mondo, oggigior no, qualche soldato in più di f endesse i cristiani perseguita ti da satrapi e regimi, da odio e intolleranze.
Sono i discorsi di sempre. Dal la sua nascita, la Chiesa è divi sa sull’interpretazione del messaggio. Ne fu degnissimo testimone lo stesso San Fran cesco, che persino tra i suoi vi de nascere divisioni molto aspre: da una parte l’applica z ione rigida e letterale del Van­gelo, che addirittura ipotizza v a l’assenza di cattedrali e mo nasteri, di regole e di gerar chie, dall’altra una visione più storicizzata e più realisti ca, dunque aperta a strutture, norme, istituzioni. Passano i secoli, ma siamo sempre al punto di partenza. Le armi mai, le armi qualche volta sì. Però neppure il vescovo di Padova, nel suo impeto pacifista, può negare una veri tà evidente: tutto possiamo pensare dei nostri soldati, non che siano in giro per il mondo a scatenare tensioni, violenze, ingiustizie e sopru si. Se su un elemento questa povera nazione raccoglie l’unanime ammirazione in ternazionale, questo è indubbiamente l’approccio umano e leale, pacifico e moderato delle nostre spedizioni.

Monsignore, sia detto con tut ta l’umiltà del caso: continui a credere nei suoi ideali assoluti e a difendere le sue posizioni intransigenti, ma provi a scindere tra le imperscrutabi li strategie politiche e il ruolo dei nostri militari. Forse, ri pensandoci, il funerale di Mat teo Miotto le apparirà come una grossa occasione persa. Lei si è trovato nella condizio ne di spazzare via la retorica e riconoscere semplicemente l’importanza di una morte. Non era necessario chiamarlo eroe. Solo per le lettere che Matteo ha lasciato scritte, un buon vescovo avrebbe sicura mente trovato le parole per di pingerlo come un ragazzo ge neroso, pulito, idealista. Un uomo giusto. Più di un eroe.

da "Il Giornale".

mercoledì 19 gennaio 2011

JAN PALACH, LUCE PER I GIOVANI DI OGGI.


Sono passati 42 anni da quando Jan Palach si diede fuoco a Praga, 42 anni da quel gesto che sconvolse persino i governanti comunisti della Cecoslovacchia, che mai si sarebbero aspettati un gesto del genere.
Jan, un ragazzo di soli 21 anni, stanco dell'oppressione sovietica del suo popolo, e di tutti i popoli dell'est, si cosparse di benzina e decise di compiere il gesto estremo dandosi fuoco con un accendino, davanti a centinaia di persone esterefatte, che ammiravano quel giovane divenuto una torcia umana. Soccorso e portato in ospedale rimase 3 giorni in uno stato di lucida agonia prima di morire. Era il 19 Gennaio 1969.

Il suo gesto doveva scuotere le coscienze del mondo, un mondo che, come ben descrive una canzone, era "rimasto a guardare sull'orlo della fossa seduto", senza alzare la voce dinanzi alle repressioni sovietiche in Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia.. Il moto riformista detto "primavera di Praga" era appena stato represso dalle potenze sovietiche del Patto di Varsavia, nel silenzio generale dell'Europa e dei partiti nostrani, e Jan, insieme ad altri studenti, decise di compiere un atto simbolico che richiedeva quanto di più prezioso un essere umano potesse dare, la proprio vita. Gli appunti scritti da Jan comn la spiegazione del gesto furono trovati a poca distanza dal luogo del tentato suicidio, tra cui queste parole

Poiché i nostri popoli sono sull'orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l'onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana. Noi esigiamo l'abolizione della censura e la proibizione di Zpravy[3]. Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni, il 21 gennaio 1969, e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste, con uno sciopero generale e illimitato, una nuova torcia s'infiammerà

Vogliamo ricordare il sacrificio di Jan perchè i ragazzi di oggi sappiano quali sono i veri valori, sappiano che, mentre diamo importanza fondamentale a cose stupide ed effimere come un vestito, ci sono stati giovani che nel nome di un Idea hanno dato la vita compiendo gesti estremi, e hanno fatto ciò per evitare, paradossalmente, che altri potessero seguirli. Jan Palach è morto compiendo un atto altamente simbolico, e il ricordo del suo corpo in fiamme deve essere per noi fonte di luce e ispirazione affinchè possiamo impegnarci per un mondo migliore, per alti ideali, per una visione della vita libera da effimeri condizionamenti.

JAN VIVE!

lunedì 17 gennaio 2011

L'INSUBRIA PREMIATA DALLA GELMINI CON PIU' FONDI!

Quanto sembrano lontane le proteste fatte da facinorosi e ricercatori politicizzati nei confronti della legge Gelmini per l'università che solo un mese fa sconvolgevano tutta Italia e che culminavano con la guerriglia urbana di Roma! Adesso che le cose iniziano a funzionare dove sono le critiche? Nessuno nella nostra amata città ha più il coraggio di parlare e di criticare il ministro ora?

L'università dell'Insubria è stata premiata con più di 4 milioni di € per la sua qualità della didattica e della ricerca, soldi che si vanno ad aggiungere ai 35 mln di € stanziati ordinariamente dallo Stato. Ecco che quindi l'Università dell'Insubria riceve, grazie alla MERITOCRAZIA, l'11% in più dei fondi che gli sarebbero destinati per il 2010. L'unico commento a caldo è quello del Rettore Dionigi, che ovviamente non può che rallegrarsi di questo bonus.
I DETRATTORI DELLA LEGGE GELMINI DOVE SONO ORA? DOVE SONO I RICERCATORI E GLI STUDENTI CHE SI LAMENTAVANO DEI TAGLI SALENDO SUI TETTI?

Un mese fa il Parlamento quasi veniva assalito per protestare contri i tagli all'istruzione di questo governo, ma adesso che i primi 20 atenei in Italia hanno preso più fondi degli anni precedenti, dove sono finiti i guerriglieri finti ribelli che assalivano le camionette della Polizia? Certo, questi soldi sono stati sottratti ad altre università in giro per l'Italia che non compaiono tra le prime venti nella classifica stilata dal ministero (L'Insubria è al 19 posto) ma la colpa non è certo del governo. Chi si impegna di più ha più fondi, chi si impegna di meno vedrà tagliate le proprie risorse. QUesto principio è un principio comune a tutte le società del mondo e, finalmente applicato alla realtà universitaria italiana, non potrà che aumentare la qualità della didattica, in una sana e naturale competizione tra atenei.

Cari studenti/ricercatori dell'Insubria che protestavate, vi invito a scendere in piazza, o a salire sui tetti, nuovamente, per protestare contro questi 4 mln di € in più, perchè la Gelmini era la rottamatrice dell'università pubblica, o sbaglio?

venerdì 14 gennaio 2011

Il ministro Meloni e i bamboccioni.


PUBBLICHIAMO LA LETTERA INVIATA DAL MINISTRO DELLA GIOVENTU', NONCHE' PRESIDENTE NAZIONALE DELLA GIOVANE ITALIA, GIORGIA MELONI AL "GIORNALE" RIGUARDO AL DIBATTITO SULLE GIOVANI GENERAZIONI.

"Davvero c'è qualcuno che può ne gare l'esistenza, oggi, nella nostra nazione, di una «questione giovanile»? In quale altro modo si potrebbe definire il combinato disposto tra la più alta disoccupazione giovani le dal dopoguerra, la precarie tà dei più consueti rapporti di lavoro, gli stipendi che per la prima volta decrescono rispetto agli anni precedenti, il co sto della vita che viceversa continua a crescere, la pres sione fiscale che non molla di un centimetro rendendo va ne le nuove idee imprendito riali, un sistema pensionistico impostato su base retributi va che evidentemente restitui rà ben poco del pochissimo che già si sta guadagnando og gi? Vogliamo chiamarla diver samente perché la tiritera sulla «questione giovanile» ci ha ormai stufato? Per me va benissimo.

Sono terribilmente allergica alla retorica. Purché si abbia l'onesta intellettuale di riconoscere che al di là dei termini giornalistici o politi chesi e di alcuni vizi genera zionali figli del benessere ac quisito, c'è un problema da af frontare. E possibilmente risolvere. Come giustamente fa ceva notare una lettrice nei giorni scorsi, magari fossero solo quelli della disoccupazine o della scarsa propensione ad accettare lavori poco «nobi li », i nemici da sconfiggere.

Troppi «under 40» (40!), mentre sto scrivendo questa lettera, sono al lavoro come stagisti o con un contratto a progetto, o come avvocati, o come giornalisti, dannandosi l'anima per uno stipendio che va tra i 350 e gli 800 euro. Sen za possibilità di migliorare la propria condizione in futuro, considerati come reietti dalle banche quando timidamente si affacciano allo sportello per chiedere un mutuo. Poi ci sono i disoccupati. Tanti, tantissimi. Alcuni se ne stanno indolenti tra le braccia di una famiglia eccessivamen te protettiva, ma molti altri si sbattono tutto il giorno tra un colloquio e l'altro, sperando di mettere a frutto le proprie capacità, i propri studi. Qualcuno vuole dargli torto? Lo faccia, io non me la sen to. Nonostante sognassi di fa re l'interprete linguistica, do po il diploma in lingue con 60/sessantesimi, mi sono tro vata un lavoro come cameriera per dare una mano a casa, rinunciando all'università, de dicandomi successivamente al giornalismo e continuando a fare politica. Detto questo, ri nunciare a quanto studiato per anni in cambio della prima occupazione disponibile è certamente comprensibile, ma non augurabile a nessu­no.

Insomma, la «questione giovanile » non è un vezzo o un'invenzione. Il fatto che si estenda a più di mezza Europa o sia aggravata da un contesto di crisi internazionale, non ci esi me dal trattarla per quello che è: un'emergenza epocale. Per queste ragioni, insieme con i colleghi di governo, ci stiamo consumando nel tentativo di proporre soluzioni efficaci. Il primo punto è stato quel lo dell'istruzione. Penso alle ri forme della scuola e dell'università.

C'è poi l'orientamento al lavoro. Se nel momento della scelta decisiva per la pro pria vita, ognuno avesse ben chiaro verso quali prospettive di guadagno o di occupabilità si sta muovendo, credo che avremmo molti più idraulici, ingegneri o infermieri e meno laureati in materie forse più af fascinanti, ma certamente me no utili alla realizzazione del la propria indipendenza eco nomica. Ancor più complessa è la questione legata ai contratti di lavoro. L'abuso di tipologie contrattuali nate per favorire il primo approccio con il mon­do del lavoro o la necessaria flessibilità delle aziende, va af frontato con grande determi nazione. Lo ha fatto benissimo il Mi nistro Sacconi, riformando il contratto di apprendistato e mettendolo al sicuro dalle spe culazioni. Lo ha fatto il Mini stero della Gioventù con alcu ne delle iniziative contenute nel pacchetto Diritto al Futu ro, come quelle con cui si aiuta la stabilizzazione con con tratti a tempo indeterminato dei giovani genitori.
Nello stesso insieme di misure ab­biamo inserito il fondo di garanzia per l'acquisto della pri ma casa, la compartecipazio ne finanziaria al 40% per le idee capaci di diventare im presa grazie all'interesse di en ti privati e fondazioni pubbliche. Ma ancora molto c'è da fare.
Stiamo lavorando duro per offrire ai giovani italiani le opportunità per realizzare le proprie legittime aspirazioni. In questo senso, per rispon dere alla provocazione di Ma­rio Giordano, non penso che questi abbiano granché biso gno di «calci nel sedere», non foss'altro perché già ne pren dono abbastanza dalla società.
A differenza di altre generazioni del passato, i giovani di oggi non chiedono aiutini di Stato, il 6 politico o i privilegi di cui hanno goduto altri. Ma una cosa è certa, nessu no di loro disdegnerebbe, me compresa, di rifilare qualche calcio nel sedere a quei politi ci e sindacalisti che negli anni belli dell'economia hanno pensato bene di mandare le persone in pensione a 40 anni o hanno messo insieme il secondo debito pubblico più grande del mondo. Lascian do il conto da pagare a chi sa rebbe venuto dopo. A noi."

lunedì 10 gennaio 2011

AMBIENTALISMO ETICO. SI ALLE TRADIZIONI, NO ALLA SPECULAZIONE.

Pubblichiamo un articolo apparso su Repubblica qualche giorno fa

Il cambio di destinazione valorizzerebbe i terreni, ma a loro non interessa. "Questa è la nostra vita da sempre, far morire i campi non è vera ricchezza"

dal nostro inviato FRANCESCO ERBANI

TREVISO - Prima uno, poi un altro, poi un altro ancora. Da Morgano a Valdobbiadene, da Godega di Sant'Urbano a Conegliano e quindi nel capoluogo, a Treviso. Altri, si dice, verranno. Sono contadini, proprietari di terreni che i Comuni vogliono rendere edificabili per farci villette e capannoni industriali. Ma loro si oppongono e insistono perché restino agricoli. Ci perdono tanto: il cambio di destinazione può valere dalle cinque alle dieci volte il prezzo di partenza. Non è come una decina d'anni fa, quando questo lembo di Veneto fu seminato di cemento e un'edificabilità faceva crescere anche di cento volte il prezzo agricolo. Ma è pur sempre la rinuncia a un bel gruzzolo.

Eppure non demordono. La famiglia Favaro di Morgano e la famiglia Caldato di Treviso coltivano la terra che coltivavano i nonni e chiedono di continuare o anche solo di tosare il quadrato verde che sta davanti a casa, di curare gli scolmatoi, di pulire le rogge e di non vederlo diventare lo svincolo di un distretto industriale. Nel frattempo il Comune gli impone di pagare l'Ici come se avessero già costruito. Ma dalla loro parte sono schierati il Fai e Italia Nostra e li assiste Francesco Vallerani, geografo dell'Università di Venezia.

I Favaro e i Caldato sono mosche bianche in questa provincia. Stando ai calcoli di Tiziano Tempesta dell'Università di Padova, nei piani regolatori dei 95 comuni del trevigiano sono conteggiate 1077 aree produttive, dieci per comune, la gran parte inferiori a 5 ettari e disseminate

a caso nel territorio. Molti, però, sono i capannoni sfitti (il 20 per cento in tutto il Veneto) e molte le aree già lottizzate sulle quali non si costruisce. Una, grande 15 mila metri quadri, è quasi al confine della proprietà dei Favaro. E lungo la provinciale che porta dai Caldato c'è un filare di stabilimenti vuoti. Ma nonostante questo, le concessioni di edificabilità fioccano quasi per inerzia. Chiunque può se le accaparra. Non tutti, perché il trevigiano è il territorio con il più alto numero di comitati in difesa del paesaggio, benedetti da Andrea Zanzotto che vigila dalla sua casa di Pieve di Soligo.

I Favaro hanno 4 ettari di terreno a Morgano. Coltivano mais. Ma la loro specialità è un vivaio di piante autoctone - aceri, querce, olmi, platani - allevate in un piccolo bosco che ripropone un brandello di paesaggio veneto. Chi le compra le lascia crescere lì e poi le porta via con l'intera zolla dopo tre o quattro anni. L'amministrazione comunale ha deciso che Morgano deve ingrandirsi con un'area industriale di 90 mila metri quadri in una zona paludosa, circondata da corsi d'acqua e che, sovrastata di cemento, rischia di finire sotto, come durante l'alluvione di due mesi fa. Siamo nel Parco del fiume Sile, in un sito protetto dalla Comunità europea. In questi 90 mila metri quadri ci sono i 40 mila dei Favaro. "A noi bastano i soldi che guadagniamo facendo gli agricoltori. Qui il cemento si mangia la terra, ma non porta più ricchezza", dice uno dei fratelli Favaro, "se avessimo l'edificabilità e vendessimo non ci darebbero soldi, ma un appartamentino in una villetta a schiera". Ora la decisione rimbalza fra Comune e Regione. Ma se l'edificabilità fosse imposta, i Favaro andranno in tribunale.

Più piccolo - 18 mila metri quadri - il terreno dei Caldato, alle porte di Treviso. Ma molto antica la storia che Pietro, con il fratello Roberto e la sorella Enrichetta, ha ricostruito fin dal Seicento e che attesta la loro proprietà dai primi dell'Ottocento. Ci sono una vigna, un orto e tanto prato. Ma il Comune di Treviso vorrebbe farne area industriale, squarciando il terreno con una strada che sfocia in una rotonda. E ai Caldato chiede di pagare l'Ici dal 2003, quando fu approvata la variante al piano regolatore: quasi 60 mila euro. "Della ricchezza che altri inseguono non sappiamo che farcene", dice Pietro. Ora con il Comune è in corso una trattativa. È intervenuto il sindaco. "Rischiamo di perdere la nostra terra e la nostra libertà. Ma ancora preserviamo il nostro modo di pensare e di vivere. I soldi? Non possiamo portarceli dietro quando saremo morti".


Perchè pubblichiamo questo articolo? Semplice. La speculazione edilizia raggiunge ormai cifre enormi nel nostro paese, e la "modernità" avanza spazzando via le nostre tradizioni e stravolgendo i nostri paesaggi. L'esempio di queste due famiglie contadine, legate ai sani valori della terra, è quasi commovente in un mondo dove i valori sembrano spariti per far posto al Dio Denaro. Spiace vedere come il comune di Treviso, gestito dai cari amici leghisti che fanno della difesa delle tradizioni e del territorio il loro cavallo di battaglia (altra storica battaglia della Destra che è stata usurpata dalla Lega) se ne sbatta del parere delle due famiglie in questione. Evidentemente quando il denaro chiama, anche i cosiddetti paladini delle tradizioni si piegano al suo volere. Siamo vicini alle famiglie Favaro e Caldato, e siamo vicini a tutte quelle persone che, anche nella nostra provincia, lottano contro la mastodontica forza di cementificatori insediati negli apparati di governo, che schiacciano chiunque gli si metta davanti, vuoi con espropri, vuoi con liquidazioni (e a volte anche senza quelle).

Nessuno vuole fare un discorso ambientalista stupido come quello dei Verdi, non è nel nostro DNA di persone ragionevoli. AL contrario l'ambientalismo di Destra è un ambientalismo che guarda l'etica e che mette al centro la persona. Perchè costruire capannoni industriali laddove ci sono terreni adiacenti, già adibiti per l'uso industriale, non ancora edificati come a Treviso? O perchè costruire una superstrada, la Pedemontana, la cui costruzione comporterà attualmente la crisi di molte attività storiche di molti paesi della Valle Olona, oltre che a uno sventramento di colline e boschi? La pedemontana serve? Può darsi, ma dove è l'etica in tutto questo?

venerdì 7 gennaio 2011

Strage di Acca Larentia, io non scordo!

7 GENNAIO 1978. ROMA.

Appena usciti dalla sede del quartiere romano di Acca Larentia, cinque giovani militanti di destra furono investiti dai colpi di diverse armi automatiche sparati da un gruppo di fuoco di 5 o 6 persone; uno di loro, Franco Bigonzetti, ventenne iscritto al primo anno di medicina e chirurgia, fu ucciso sul colpo. Vincenzo Segneri, seppur ferito ad un braccio, riuscì a rientrare nella sede del partito, dotata di porta blindata, assieme ad altri due: Maurizio Lupini e Giuseppe D'Audino, rimasti illesi.

L'ultimo del gruppo, Francesco Ciavatta, liceale diciottenne, pur essendo ferito, tentò di fuggire attraversando la scalinata situata al lato dell'ingresso della sezione ma, seguito dagli aggressori, fu colpito nuovamente alla schiena; morì in ambulanza durante il trasporto in ospedale.

Nelle ore seguenti, col diffondersi della notizia dell'agguato, una sgomenta folla, composta soprattutto da attivisti missini romani, si radunò sul luogo.

Un giornalista della Rai accorso sul posto si dice abbia lanciato un mozzicone di sigaretta nel sangue di una delle vittime, in sfregio al "fascista ucciso".
Per far fronte al tafferuglio creatosi su reazione dei giovani missini, il Capitano dei Carabinieri Edoardo Sivori sparò ad altezza d'uomo, centrando in piena fronte il diciannovenne Stefano Recchioni, militante della sezione di Colle Oppio e chitarrista del gruppo di musica alternativa Janus, a cui il cantautore Fabrizio Marzi dedicò nel 1979 la canzone "Giovinezza"; il giovane morì dopo due giorni di agonia.

Alcuni mesi dopo l'accaduto il padre di Ciavatta, portiere di uno stabile in Via Deruta 19, si suicidò per la disperazione bevendo una bottiglia di acido muriatico.

Il raid fu rivendicato alcuni giorni dopo tramite una cassetta audio fatta ritrovare accanto ad una pompa di benzina; la voce contraffatta di un giovane, a nome dei nuclei armati di contropotere territoriale.

In questa strage, lo Stato e il comunismo uccisero, in quegli anni bui per l'Italia, tre ragazzi colpevoli solo delle loro idee, per odio ideologico nei confronti di una generazione che decideva di resistere e di fregarsene dei detrattori e delle pallottole. Essere di Destra voleva dire avere coraggio, lottare per un'Idea superiore, e a volte anche morire. Nel loro nome adesso continuano ad avanzare le nostre idee.

Francesco, Stefano, Franco

PRESENTE, PRESENTE, PRESENTE!

mercoledì 5 gennaio 2011

Ricordiamo IL VERO PATRIOTA CESARE BATTISTI (1875-1916)



In questi giorni di grande dibattito politico riguardo l'estradizione del ex terrorista comunista Battisti dal Brasile, si rischia, a nostro parere, di assimilare il nome Cesare Battisti alle parole terrorismo, anni di piombo, rapina, et similia. Non dobbiamo però dimenticarci, e sopratutto in questo anno, il 2011, anno del 150esimo anniversario dell'Unità d'Italia, che l'ex brigatista è omonimo di un altro Cesare Battisti, sconosciuto ai più, ma molto più degno di nota e di stima. Ma si sa, in Italia gli eroi sono dimenticati e i delinquenti osannati.

Ricordiamo quindi la figura del giovane patriota Battisti, nato a Trento nel 1875, in pieno fermento nazionalista, quando le italianissime terre del Trentino e della Venezia Giulia, i cui capoluoghi Trento e Trieste furono assunti a simbolo del dominio straniero sull'Italia, erano ancora in mano austriaca, e sembrava che, anche dopo l'unione alla madrepatria del Veneto dieci anni prima, fossero destinate a rimanere austriache, visto il disinteresse della classe politica italiana.

Cesare è figlio di padre e madre italiano, studia in Austria e in Italia, diventa giornalista e geografo e si appassiona alla cultura del Trentino, ai suoi usi e costumi, alla sua storia e alla sua cultura italiana da sempre. Per lui l'autonomia del Trentino è il primo passo, in vista di un ulteriore passo verso l'unificazione con il regno d'Italia; per questo si fa eleggere deputato al parlamento austriaco, deciso a combattere dall'interno la sua battaglia contro il dominio straniero su Trento. Ma la guerra fa precipitare le cose, e dopo pochi giorni dallo scoppio della prima guerra mondiale, scappa in Italia, nel Veneto, dove tiene comizi nelle città promuovendo le idee irredentiste, che aveva abbracciato pochi anni prima.

Quando anche l'Italia entra in guerra si arruola tra gli alpini e diventa in meno di un anno Tenente. Numerose le sue azioni condotte con sprezzo del pericolo sul campo di battaglia, ma la più famosa rimane quella dove verrà catturato, sul Monte Corno, e per il quale sarà insignito della Medaglia d'oro al valor militare.
Fu giudicato da un tribunale austriaco come traditore anzichè come prigioniero di guerra secondo le leggi internazionali, e per questo fu condannato all'impiccagione. Inutili furono le sue richieste di morire tramite la fucilazione, pena che per lui meglio si adeguava ad un soldato. Condotto senza la sua divisa italiana al patibolo, fu impiccato subito dopo la sentenza di morte, il 12 Luglio 1916, e prima di morire gridò "VIVA TRENTO ITALIANA, VIVA L'ITALIA!".

Cesare Battisti è attualmente sepolto nel mausoleo a lui dedicato nella sua città, Trento, sull'altura del DOSS che sovrasta la città. Cesare è un eroe della nazione italiana e diede la vita per la riunficazione delle provincie italiane ancora in mano austriaca. E' anche grazie al suo sacrificio, insieme a quello di altri 600mila caduti italiani, che al termine della prima guerra mondiale il Trentino, Trento, Trieste e Gorizia, poterono finalmente unirsi all'Italia, vittoriosa sull'Austria.

Diffondiamo quindi,facciamo sapere ai nostri coetanei che sono vissuti due Cesare Battisti, uno terrorista che uccideva un gioielliere solo perchè "porco avverso al comunismo", un altro, soldato ed eroe, che lottò insieme ai nostri bisnonni per l'Italia unita, morendo a soli 31 anni.