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martedì 20 settembre 2011

L'ambasciatore palestinese "L'Italia deve assumere un ruolo di primo piano nel Mediterraneo"


«Come popolo palestinese abbiamo scelto di rivolgerci all'Onu perché è la sede della legalità internazionale». Il 23 settembre l'Anp formalizzerà la richiesta di riconoscimento dello Stato della Palestina. Alla vigilia di questo atto, che tanto fa dibattere la comunità internazionale, l'ambasciatore palestinese in Italia, Sabri Atayeh, spiega perché «dopo anni di tentativi abbiamo scelto questa via, che è la più trasparente e impegnativa possibile, invece di dar vita, ad esempio, a iniziative politiche unilaterali». «Chiediamo - sottolinea - che venga riconosciuto quello che è un nostro diritto. Siamo ormai forse l'unico popolo ancora sotto occupazione».

Il riconoscimento prevede anche quello di Israele?
Certamente. Da tempo invochiamo due Stati per due popoli, e il riconoscimento di Israele è un passo indispensabile per la nostra esistenza come Stato.

Il mondo arabo sta vivendo un momento di profonda trasformazione, la vostra iniziativa alle Nazioni Unite va vista come un portato della cosiddetta Primavera araba?
Nasce prima della primavera araba, in un certo senso la anticipa, è autonoma. Tuttavia oggi si inscrive in questo grande e importantissimo scenario e credo che soprattutto l'Europa debba tenerne conto. I Paesi occidentali, soprattutto europei, hanno appoggiato sin dall'inizio le rivoluzioni democratiche di Tunisia, Egitto, Libia e altri Paesi arabi. Sarà difficile spiegare a questi Paesi un eventuale voto contrario al riconoscimento dello Stato palestinese. Offrirebbe il fianco a una strumentalizzazione anti occidentale, che avvantaggerebbe solo le forze meno democratiche presenti nel mondo arabo.

Le democrazie occidentali appaiono titubanti, e anche l'Italia non ha ancora dichiarato come voterà. Eppure solo pochi mesi fa la vostra delegazione qui a Roma, per volere del presidente Napolitano, è salita a grado di missione diplomatica e la Svezia vi ha riconosciuto un'ambasciata, per non parlare dell'impegno di un anno fa di Obama, proprio all'Onu.
L'upgrading delle nostre rappresentanze diplomatiche è stato un passo importante di cui siamo grati. Tuttavia occorre distinguere queste iniziative più istituzionali dal piano politico. L'Europa ha da sempre avuto una prudenza politica nel trattare la costituzione reale dello Stato palestinese, prudenza che però è mal interpretata da Israele e letta come un'approvazione di fatto del suo operato nei nostri confronti. Credo che l'Europa debba comunicare meglio questa sua prudenza, sgombrando il campo dai possibili equivoci e sottraendosi a strumentalizzazioni.

Lei parla di Europa come di una realtà con una politica davvero comune. Eppure le difficoltà ad accordarsi sono sotto gli occhi di tutti...
Personalmente sono convinto che l'Europa abbia un ruolo rilevantissimo nel mondo, soprattutto sulle decisioni di politica internazionale. Di più, mi sento di rivolgere un appello in particolare alle autorità italiane perché sia proprio l'Italia a ricoprire un ruolo di avanguardia nel trattare i nodi geopolitici del Mediterraneo e della politica mediorientale, rafforzando la posizione europea. L'Italia, Paese amico di Israele e di tutti i Paesi del Mediterraneo, ha le carte in regola per farlo.

Come legge l'attivismo della Turchia?
Come il frutto dell'arenarsi del processo di ingresso in Europa. Sono convinto che, in gran parte, Erdogan stia cercando un ruolo ancora più forte proprio in vista della sua interlocuzione con l'Europa.

Non crede a un ritorno dell'Impero Ottomano, come talvolta si sente dire?
No. Non credo che ci siano spazi per una reale regia turca del Mediterraneo. Inoltre, dopo la Primavera araba, sarà molto difficile che un Paese arabo accetti ingerenze o influenze pesanti da parte di altri Stati, sarebbe in contraddizione con il principio di autodeterminazione che le rivoluzioni democratiche hanno inteso affermare.

E poi fra arabi e turchi non sempre è corso buon sangue…
Diciamo che non sempre c'è stata simpatia. Però è indubbio che le posizioni decise che il premier Erdogan ha preso anche di recente sono di estrema importanza e gliene siamo grati.

Lei parla di paesi arabi, ma si tratta anche di paesi islamici, e l'islam è un collante cui lo stesso Erdogan fa esplicito riferimento.
La Palestina è per metà, e forse di più, cristiana. In malafede, ne sono sicuro, in molti tendono a dimenticarlo, ma la Palestina è la terra dei cristiani, basti pensare a Betlemme. Noi stessi palestinesi, quando parliamo della nostra terra in modo familiare, la chiamiamo "al muqaddasa", terra santa, e non facciamo allusione solo alla moschea di al Aqsa e alla spianata delle moschee, ma anche ai luoghi di Gesù e dell'Antico Testamento. Da sempre viviamo insieme, e come un solo popolo festeggiamo il Ramadan e il Natale.
Ha fatto riferimento a Gerusalemme, al Quds, in arabo, la Santa, ma anche la contesa, visto che Israele la vorrebbe coma capitale dello Stato ebraico.
Nella risoluzione presentata all'Onu, accettiamo che Gerusalemme possa essere anche capitale di Israele, doppia Capitale, un po' come Roma per l'Italia e lo Stato vaticano.

La pensa così anche Hamas?
La questione di Hamas, al di là delle strumentalizzazioni, è una questione in sé poco rilevante. Mi spiego: è un partito di opposizione, un partito estremista se si vuole, ma di opposizione al nostro stesso governo. E gli accordi si fanno con i governi. Noi stessi non abbiamo mai sollevato al governo Netanyahu il problema dei partiti estremisti di Israele. Eppure ci sono.

Come quelli che vorrebbero trasferire in territorio palestinese gli arabi che vivono in Israele?
Ad esempio. Gli arabi che vivono in Israele sono israeliani. Pensare diversamente sarebbe ritornare a logiche quasi di deportazione.

Che cosa vi aspettate davvero con il voto dell'Onu?
Che questo passaggio formale importantissimo possa rilanciare il negoziato diretto con Israele, che noi vogliamo più di tutto. Sappiamo bene che senza questo rapporto diretto con il governo israeliano l'esistenza, non solo sulla carta, del nostro Stato è impossibile. Per questo ci auguriamo che il voto della settimana prossima ci permetta di riprendere questo negoziato e di portarlo davvero a buon fine, per il bene nostro, di Israele e di tutto il mondo.

Serena Forni Tajé dal "Secolo d'Italia" 17-09-2011

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