Nei momenti felici di una grande nazione, la gioventù prende gli esempi; nei momenti difficili, li da.

mercoledì 4 maggio 2011

La destra identitaria ricorda Bobby Sands.



Strane cose accadono in Europa.
Mentre il vecchio continente è sempre più in balia della tecnocrazia, dove il grigiore dei palazzi del potere soffoca ogni passione per la tanto sognata unità europea, tocca alla fredda e uggiosa Irlanda scaldare i nostri cuori. Sono passati trent’anni da quel 5 maggio del 1981 quando si spense la giovane vita di Bobby Sands. Molti di noi erano troppo piccoli per capire, ma allora il mondo rimase sconvolto dalla storia di quel caparbio irlandese che non toccò cibo per 66 giorni. A noi italiani, che da decenni assistiamo alle sceneggiate di Pannella e compagni radicali, sembra impossibile arrivare fino a questo punto.

Bobby Sands in realtà amava la vita. Voleva vivere in pace con la sua famiglia nel suo quartiere di Belfast, avere un lavoro anche se umile. Ma non gli fu permesso e dovette trasferirsi a Twinbrook un quartiere – ghetto cattolico. Lì vide, forse per la prima volta, dei giovani irlandesi cattolici che non scappavano, che difendevano con le armi la propria comunità. Erano i volontari dell’Esercito Repubblicano Irlandese. Volle unirsi a loro, ai “provos”, diventando membro del Primo Battaglione della “Brigata Belfast”. Aderì alla Provisional IRA perché pur avendo ideali di giustizia sociale, Bobby era un nazionalista. A lui non interessava istaurare il comunismo in Irlanda, ma liberare la sua terra dallo straniero inglese e protestante.

Quando venne arrestato per la seconda volta, nel 1976, e condannato successivamente a ben 14 anni di reclusione per possesso illegale di arma da fuoco, la sua vita arrivò ad una svolta. La sua lotta per la libertà dell’Irlanda non si sarebbe fermata in carcere, ma sarebbe continuata. Nei famigerati blocchi H del carcere di Long Kesh, Sands divenne comandante dei prigionieri politici dell'IRA. Quello di Long Kesh era un vero e proprio lager della “democratica” e “liberale” Gran Bretagna. Umiliazioni e torture di ogni genere erano all’ordine del giorno.

Per questo motivo Bobby Sands iniziò, con gli altri detenuti irlandesi, la lotta per il riconoscimento dello status di prigioniero politico. Fu necessario intraprendere lo sciopero della fame per far conoscere al mondo cosa succedeva nelle prigioni dell’ultima colonia in Europa. Il Governo inglese non volle accogliere le sacrosante richieste dei prigionieri irlandesi. Sands morì con in mano la croce d’oro donatagli da Giovanni Paolo II, da ieri salito agli onori degli altari.
Altri nove commilitoni lo seguirono in quella tragica protesta. Gli irlandesi piansero per giorni il loro “giovane ribelle per la patria”, tra il suono delle cornamuse e gli spari a salve del picchetto d’onore dell’IRA. Pochi giorni dopo la sua morte, il New York Daily News scriveva: “era uno di quei rari giovani che nutriva un amore così grande per il posto in cui viveva, da accettare di morire per esso”.
Trent’anni sono passati e quel giovane irlandese riesce a riscaldare ancora i nostri cuori, resi gelidi da un mondo sempre più schiacciato dall’omologazione e dal senso dello sradicamento. Se i popoli europei provassero un quarto dell’amore che Bobby provava per la sua terra, tante brutture sarebbero spazzate via.

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